Inserito nella rassegna di «Passione Civile», al Teatro Franco Parenti, «Pioggia» racconta uno spaccato di realtà senza retorica, calato nel tempo eppure estratto da esso, senza un prima e senza un dopo, che non sia lo stesso di un giorno qualsiasi…
La notte. Troppe bottiglie di vino scadente. La Pioggia. Sembra l’inizio di un film americano, di quelli che si dipanano interamente tra polvere e strade senza fine apparente. Ma la strada e la polvere che si è invitati a immaginare non sono quelli di un midwest da romanzo, ma l’Italia di oggi.
É sul qui e ora condiviso tra scena e platea che cade la Pioggia, in scena al Teatro Franco Parenti. Somigliano a chi li osserva, il vecchio Fausto, il capo cantoniere, il giovane Riccardo, che vuole un altro orizzonte a cui spingere lo sguardo. E così l’indolente Nino, stretto alla sua chitarra. E Osman, “quello che tutti chiamano slavo” e che non impara mai bene l’italiano.
Sono tratti di esistenze e di paesaggi che ciascuno può rintracciare nella propria memoria, quelli che Fausto e Nino tratteggiano, conversando, nell’attesa che la notte, e la pioggia passino. Un viaggio tracciato dalla geografia dei bar, di tappe di un viaggio che non conduce a nessuna meta e non riconosce più una poetica dell’andare, ormai sbiadita dal troppo inchiostro.
Perché questo non è un romanzo, ma la vita vera, la vita minuta, stanca, quotidiana, di chi cerca la propria poesia in ciò che fa tutti i giorni, come Fausto, o in chi, come Riccardo, vuole riscattare la sua assenza di un passato in un futuro diverso, tra statale e il west.
Vengono in mente certi cowboy, a guardare Pioggia, in cui l’eroismo se c’è stato è stato grezzo e comunque è ormai memoria. Uomini a cui la vita ha già dato il tempo di costruirsi una scorza, che per parlarsi hanno una sola lingua, quella di una violenza che scorre sottopelle, come una vena sempre sul punto di ostruirsi ed esplodere.
E che può esplodere, quando in questo luogo sospeso irrompe il presente, quello a tinte fosche dell’odio del diverso, del nuovo fascismo imperante, che sfoga la propria mediocrità trasformando in vittima – almeno, nelle intenzioni – chi condivide la stessa banale normalità tra bar e lavori di fatica.
E tuttavia, quest’odio non fa che ritorcerglisi contro, perchè un chi ha conosciuto le tragedie della della storia ha dovuto imparare a reagire ai suoi nipotini senza memoria.
E allora, se la sola grammatica dell’espressione è quella della violenza, dove si situa, veramente? Chi può dirsi davvero sconfitto dalla vita?
È un’apologia dei marginali, Pioggia, che riesce però a evitare i toni banali e triti che cancellano le contraddizioni, e – quasi sempre – le frasi retoriche.
Ne emerge un lavoro che è uno spaccato di realtà, calato nel tempo eppure estratto da esso, senza un prima e senza un dopo, che non sia lo stesso di un giorno qualsiasi.
Ma che per un istante ha provato, a suo modo, a dire e dirsi, e nella sua estrema, fisica, concretezza diventa simbolico senza dichiarare di esserlo, e offrendo spazio, tra la penombra e i toni piatti della luce elettrica – a qualche accenno di eleganza che non stona con la ricerca del verosimile, in un’attesa che si sostiene con sé stessa.
Che trova un picco di intensità notevole, più che nell’unico, reale avvenimento, quando la storia si interseca con la Storia, e nel presente di Osman suona l’eco del passato sotto i cecchini di Sarajevo, gli stessi da cui solo la pioggia, torrenziale come continua a cadere, poteva proteggere.
Un vistoso apice narrativo reso tale anche dall’interpretazione intensa ed emotiva di Diego Runko, che spicca sui pur validi compagni di viaggio, tra i protagonisti Alberto Onofrietti e Alberto Astorri e il (solo spazialmente) più marginale Giovanni Gioia autore e interprete dal vivo delle musiche, graffiate e plumbee in piena coerenza con l’atmosfera.
Due ruoli, quelli di Runko e Gioia, che il regista e autore del testo, Marco Pezza, ha avuto la felice intuizione, in sede di messa in scena, di cucire intorno ai propri interpreti, offrendo loro efficacia e compiutezza, che permettono loro di essere l’ultimo efficace tocco di pennello su un quadro del presente scarno e crepuscolare, in cui cova, in nuce, la speranza che la notte possa finire.