L’ottimo regista argentino Pablo Larrain (“Toni Manero”, “El Club”, “Neruda”) racconta il dramma di Jacqueline Kennedy, la più celebre first lady nella storia Usa. A pochi giorni dall’assassinio del marito, concede a un giornalista di Life un’intervista senza reticenze: passionale, commovente, altera, mostra i tratti della statista e della donna intelligente e di carattere. Nathalie Portman (in corsa per l’oscar) la fa rivivere nel film, insieme a molti altri squarci importanti della sua vita accanto a John Fitzgerald Kennedy. Sempre al servizio del suo mito, ma anche di un’America protagonista della Storia
Se vi aspettate il classico biopic, Jackie non è quello che vi aspettate. Se vi aspettate chic e leggerezza, resterete altrettanto delusi. Il tailleur Chanel c’è, ma è sporco di sangue. Del resto, il regista del film è Pablo Larrain, quello di El Club, che proprio leggero non era, e anche in questo suo settimo film non sceglie facili percorsi, non si accontenta di essere brillante e descrittivo. Sceglie la profondità e lo fa con glaciale emotività, che è un ossimoro, è vero, ma in questo caso ci sta alla perfezione. Jackie è un film freddo, eppure ci si continua a pensare, dopo che le luci si accendono. Ed è coinvolgente, anche se non dà alcuna gioia da gustare.
La storia prende l’avvio a una settimana dalla morte di John Fitzgerald Kennedy, quando la moglie Jacqueline, interpretata da un’intensa Nathalie Portman, candidata per questa prova all’Oscar (e il film è in corsa anche per la musica e i costumi) concede un’intervista a Theodore White (Bill Crudup lo impersona) , giornalista della rivista Life. L’intervista è vera e potete trovarla su internet. Tutt’altro che vinta, a una settimana di distanza dall’aver tenuto fra le mani la testa spappolata del marito, durante il colloquio con il giornalista Jackie si preoccupa soprattutto del paese, dell’eredità politica e dell’immagine che JFK lascia al suo popolo. È il suo ultimo regalo a un marito difficile eppure amatissimo.
Ma è soprattutto l’ultimo tocco di classe a una presidenza pensata per essere all’altezza di un paese in trasformazione, di cui la coppia Jackie e John Kennedy era la punta di diamante. Fedele alla linea, la neo vedova di JFK mantiene alta la squadrata mascella e, anche se la morte intacca questa pietra preziosa, per suo marito organizza una delle più toccanti cerimonie funebri mai immaginate, all’altezza dei migliori insediamenti presidenziali. Perché se la morte impedisce al marito il lustro dell’Ufficio Ovale, allora la sua tomba deve diventare altrettanto illustre, una sorta di Ufficio Eterno.
Il racconto di Larrain non si preoccupa di rivelazioni sensazionali, ma segue la protagonista nei terribili momenti dopo l’attentato al marito, come quando si rifiuta di cambiarsi d’abito e di pulirsi il sangue di dosso, per sottolineare, durante il frettoloso giuramento del vice presidente Lyndon Johnson nell’aereo che trasporta il corpo di Kennedy, chi sta veramente facendo la storia in quel momento.
La risposta è chiara. E per la prima volta si finisce per chiedersi se tutta la popolarità che JFK ha avuto e conservato negli anni, considerando il suo breve tempo di governo e tutto sommato il poco che ha fatto, non sia dovuta proprio a questa donna. Il film sembra voler sostenere questa ipotesi. A partire dalla famosa intervista, riproposta qui come flash back, in cui la first lady aprì per la prima volta la Casa Bianca per lasciare che, grazie alla televisione, ogni americano potesse entrare e visitare le sale della residenza presidenziale con lei come cicerone. Un’idea geniale della Jaqueline del tempo.
Larrain sceglie con cura i momenti da rappresentare, utilizzando una fotografia molto bella, a volte sgranata, come gli occhi di Jackie/Portman sulle vicende che la sommergono inaspettatamente. A ogni scena sembra voler sottolineare la complessità del carattere della first lady, compresi molti primissimi piani, e la protagonista lo segue con grande dedizione in questa impresa. A partire dal modo di parlare della vera Jacqueline, davvero singolare, che l’attrice riproduce perfettamente. Se proprio le si vuole fare un appunto, a volte tanta perfezione risulta quasi gommosa, ha una vischiosità che un po’ lascia distanti. Ma sono questioni di lana caprina.
Gentile eppure distante, animata da una forza trattenuta e rabbiosa al tempo stesso, perfetta e lucida di fronte agli altri, la Jackie di Larrain si permette di essere scarmigliata e offuscata dall’alcol e dai sedativi solo quando, da sola, percorre i lunghi corridoi di quella che entro pochi giorni cesserà di essere la sua presidenziale casa, e di fronte a lei si aprirà l’ignoto.
Ma se in quel momento non sa quale sarà il suo destino, sa invece perfettamente quale sarà il suo lascito: il ricordo di una presidenza che ha il sapore di un luogo fatato. Per tutti, il periodo kennediano verrà ricordato come Camelot, il regno di Re Artù. Proprio nell’intervista con White, citando un passo di una canzone del musical Camelot, in quegli anni di grande successo, ispirato alla storia dei Cavalieri della Tavola Rotonda, la vedova di JFK recita quello che diventa di fatto il suo epitaffio: “Fate che nessuno dimentichi che una volta c’era un posto, per un breve, luminoso momento, conosciuto come Camelot”.
Jackie, di Pablo Larrain, con Nathalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, Billy Crudup, John Hurt, Richard E. Grant