La Grande Brera come quartiere nel cuore della Grande Milano, un libro di Franco Russoli come talismano, la valorizzazione di Palazzo Citterio, il nuovo riallestimento: “testiamo, nessuno ha la ricetta in tasca”, dice il direttore della Pinacoteca di Brera
La Brera del passato, del presente e del futuro. Dall’ottobre del 2015, James Bradburne, 60 anni, anglo-canadese, è il nuovo direttore della Pinacoteca di Brera. I suoi programmi, la sua visione della città e del sistema Brera al centro del nostro incontro.
Direttore, lei, canadese, arriva a Milano dopo diversi anni trascorsi a Firenze alla guida di Palazzo Strozzi: il primo impatto con la città?
È stato fantastico, perché banalmente è una vera città. Non ci sono città in Italia: Firenze non è una città, Venezia non è una città, Roma è la capitale ma non è una città, Napoli neanche, insomma dove sono le città in Italia? La risposta è Milano. Milano è l’unica realtà italiana ad avere una densità che sostiene un ecosistema molto complesso: ci sono microecologie e microgruppi molto diversi tra loro che la rendono una vera città; lo stesso avviene a Parigi, a Londra, a New York. Ovviamente non possiamo paragonare queste città a Milano, che tuttavia presenta le stesse caratteristiche di complessità, di diversità e di sostenibilità: cambia ma rimane sempre la stessa e questo mi piace molto. Si, mi trovo davvero bene.
Entriamo nel vivo della questione “sistema musei”. A che punto sono i rapporti tra la Pinacoteca di Brera e la città?
Milano è una cosa, Brera e la Braidense un’altra, perché sono musei statali. Questa confusione è stata fatta anche dal sindaco di Firenze quando si è insediato: pensava che gli Uffizi facessero parte della città. Ma gli Uffizi sono un museo statale, con le proprie logiche. Mi rende perplesso che Brera e la Braidense siano staccate dalla città, in una maniera che non sempre è positiva. Nel centro di Milano, nel cuore di Milano, a due passi dalla Scala, a due passi dal Piccolo, sembra tuttavia una realtà a sé. Questa per me è un’importantissima opportunità perché rimettere Brera nel cuore di Milano come città, riconoscendo però le sue qualità di museo statale, è davvero una grande sfida.
Una sfida a cui lei ha cominciato ad applicarsi; la sensazione è che, dopo molto tempo, qualcosa a Brera si stia muovendo.
Si, ma non solo grazie a me. Arrivando a Brera ho scoperto che c’era una squadra di persone molto competenti, che andava semplicemente ascoltata e incentivata, ed è quello che abbiamo iniziato a fare. La mia funzione principale deve essere quella di far crescere le persone e le loro competenze. Se ciò avviene siamo a metà del cammino. Solo in Pinacoteca lavorano duecento persone.
Valorizzare le risorse esistenti invece che inseguire “eventi” che abbiano la parvenza della novità. Questa è una regola che non tutti sembrano seguire a livello museale.
Non vorrei sembrare arrogante, ma non penso agli altri musei. La mia sfida non è quella di cambiare l’Italia, ma quella di far crescere i fiori di questo giardino che sono malmessi e stanno soffrendo notevolmente. Il mio lavoro è qui. Conosco gli altri musei milanesi, ma il mio incarico è in questo giardino. E credo che se riusciamo a mostrare che è possibile far crescere questo giardino possiamo insegnare qualcosa agli altri, semplicemente ottenendo, senza proclami e manifesti, dei risultati.
In qualche modo, sembra di essere tornati ai tempi coraggiosi della Brera di Franco Russoli, lo storico direttore della Pinacoteca, morto nel 1977.
Assolutamente. Nonostante la mia esperienza ho scoperto Russoli quasi per caso, venendo qui. Una mia curatrice mi ha portato un libro scritto da Russoli e sfogliandolo mi sono reso conto che la sua visione era in linea con quella dei miei modelli: Nelson Goodman, Willem Sandberg, Marshall Macluhan, Alfred Barr. Ho detto questo è mio, se lui fosse vivo sarebbe un amico subito.
Io non devo inventare niente, Russoli aveva una visione molto profonda di Brera, negli anni è diventato una sorta di faro. Ovviamente siamo nel 2016 e lui ha vissuto esperienze diverse dalle nostre, come la guerra e la Resistenza, però le sue idee sulla necessità di rinsaldare il legame con la città sono ancora valide. Ho conosciuto un’amica di Russoli che mi ha detto cosa significava per lui la Grande Brera: era un percorso, che incominciava con la chiesa qui affianco, che passava all’orto, all’osservatorio e finiva con la Scala. Per Russoli Brera non era il solo Palazzo, ma un percorso nell’intero quartiere. La Grande Brera per lui era tutto questo. Così la concepisco anche io: la Grande Brera non è un edificio, non è una Pinacoteca, ma l’insieme di vari luoghi limitrofi; Brera, il Piccolo e la Scala costituiscono un triangolo, a cui si aggiungono il Poldi Pezzoli e le Gallerie d’Italia, o realtà commerciali come il Crespi, il negozio di belle arti qui all’angolo. Noi possiamo essere i catalizzatori di tutto questo. La Grande Brera come quartiere nel cuore della Grande Milano. Mi sono molto ispirato a Russoli, certo; per esempio il suo libro Il museo nella società, pubblicato da Feltrinelli all’inizio degli anni ’80, è fuori catalogo. Ho proposto ai Feltrinelli di ristamparlo ma non avevano più i diritti. Fortunatamente, tramite una giovane studiosa, Erica Bernardi, che sta facendo la ricerca di dottorato su Franco Russoli, abbiamo ottenuto dal nipote i diritti per ristampare il libro, cosa che sta avvenendo con l’aggiunta di interviste ai conoscenti, di una documentazione fotografica e di una traduzione in inglese perché merita di essere letto anche all’estero. Inoltre il nipote di Russoli mi ha anche regalato la copia del catalogo della mostra di Picasso che lo studioso curò a Palazzo Reale nel 1953 proveniente dalla sua biblioteca e la conservo come un talismano.
Intanto, avete riallestito alcune sale della Pinacoteca, quelle della pittura marchigiana e emiliana. Ci racconta qual è il progetto?
È soltanto una bozza, non è la risposta. È una bozza per raccogliere commenti ed eventualmente cambiare durante il prossimo riallestimento che inizia in giugno. Dobbiamo testare, nessuno ha la ricetta, nemmeno Russoli l’aveva. Non voglio partire da un progetto definitivo, ma costruire pezzo per pezzo e ascoltare. Così facendo, in tre anni avremo compiuto il progetto, anche portando a termine la valorizzazione di Palazzo Citterio che Russoli riuscì ad acquistare nel 1974. Apriremo il palazzo con le collezioni contemporanee. Ho questo programma triennale che finisce nel 2018. In quell’anno vorrei fare due mostre temporanee nel risistemato Palazzo Citterio. La prima sul collezionismo milanese, facendo tornare anche le collezioni Jucker. Mentre la seconda spero sarà legata a una mostra di Picasso che forse ci sarà a Palazzo Reale, dove si svolse la mostra del 1953; mi piacerebbe mettere in evidenza il ruolo svolto da Franco Russoli in quella occasione. Se riesco, vorrei anche sistemare la sua biblioteca in Palazzo Citterio.
Niente è dato per scontato e le sfide sono grandi, ci sono diverse resistenze. Non è detto che certe cose si riescano a fare, quello che posso però promettere è che mentre sarò qui ci proveremo.
Immagine della Pinacoteca di Brera: Kumi Kush