Jane Austen a duecento anni dalla morte, dai primi romanzi a Hollywood: perché l’autrice di “Orgoglio e Pregiudizio” ci parla ancora.
“A tua Zia C. non piacciono i romanzi disordinati, e teme alquanto che il tuo sia troppo di questo tipo, che ci siano scambi troppo frequenti da un gruppo di persone a un altro, e che talvolta siano introdotti avvenimenti apparentemente importanti, che non porteranno a nulla. – Anche se fosse, per me non è un’obiezione particolarmente significativa” (Jane Austen ad Anna Austen, 10-18 agosto 1814, Lettere).
Far cominciare un discorso su un autore con le parole dell’autore stesso è un mezzo a buon mercato per aggirare la minaccia del foglio bianco e mettere tutto ciò che si ha da dire al riparo dell’invocazione della Musa. E tuttavia – anche scrivere “e tuttavia” dopo un inizio simile è un topos dei primi paragrafi – è un modo per andare subito al sodo quando si tenta di racchiudere in poche parole qualcosa di complesso come il bilancio generale su quell’autore a due secoli dalla sua scomparsa.
C’è sempre una quota di imbarazzo nello scrivere un testo per una ricorrenza, operazione che ormai ha prodotto un suo genere proprio, fatto di resoconti, prese di distanza (o attestati di vicinanza), verifiche di tenuta e interrogativi su ciò che rimane di questo o quell’autore o personaggio; ed è un imbarazzo tanto più pressante in quanto il personaggio in questione è un’artista dall’ironia spietata, che non ha risparmiato nulla, e che avrebbe indubbiamente trovato qualche riflessione tagliente a proposito dell’apparato di convenzioni che sorregge il gesto di ricordare qualcuno “a duecento anni dalla scomparsa”. Ma è pure vero che le cifre tonde ci aiutano a dare forma al tempo che passa e a solidificare le distanze cronologiche in quantità con cui possiamo misurarci, per cui, armati dell’utile strumento del distacco laico da ciò che si intraprende, tanto vale sfruttare l’occasione per ricordare chi fosse Jane Austen e cosa ci faccia ancora tra di noi.
Nell’agosto del 1814, tre anni prima di morire, duecentotré anni fa, Jane Austen, con poche e chiare parole ribadiva alla nipote Anna, a proposito del romanzo che quest’ultima stava scrivendo, qualcosa che la fitta bibliografia su di lei, con molto più numerose e spesso meno chiare parole, ha in seguito insistentemente rimarcato, ovvero la sua convinzione che in un romanzo potessero sempre trovare posto quelle circostanze «of apparent consequence which will lead to nothing» che irritavano la zia Cassandra e che con plurisecolare insistenza le poetiche occidentali avevano condannato come difetti di costruzione tipici delle opere narrative malriuscite. Nell’agosto del 1814 Jane Austen aveva 39 anni, aveva appena pubblicato in rapidissima successione e con enorme successo di pubblico Ragione e sentimento (1811), Orgoglio e pregiudizio (1813) e Mansfield Park (1814), stava già lavorando a Emma (1815), e aveva nel cassetto le bozze dell’Abbazia di Northanger, che sarebbe uscito postumo insieme al suo sesto e ultimo romanzo compiuto, Persuasione, nel 1818. Si può quindi dire che, se tra quello che rimane della sua corrispondenza non c’è molto che si possa a pieno titolo definire una “dichiarazione di poetica”, tanto più valore ha il comparire di questa idea inserita così, quasi di sfuggita, tra i suggerimenti e le rassicurazioni rivolte alla nipote, in un messaggio scritto al culmine della sua intensa stagione creativa. Ma il motivo per cui ha senso ricordare un simile dato – ricordarlo qui – non è ovviamente il suo valore in termini di storia della scrittura romanzesca o di teoria della narrativa, bensì il suo essere alla base della persistenza di Jane Austen nel nostro immaginario, nel canone di narrazioni e di miti moderni a cui riconosciamo la capacità di rappresentarci. Nei romanzi di questa narratrice c’è infatti ben più che una semplice tolleranza o una benevola apertura nei confronti di scene dalla natura inessenziale e inconcludente: c’è la volontà di mostrare come di momenti grigi e dall’aspetto insignificante sia composta la maggior parte del tempo in cui trascorrono le vite umane, e conseguentemente come di essi debba essere composta anche la maggior parte dei romanzi che vogliono parlare dell’esistenza normale di persone normali. Nata a poche decine di chilometri dai luoghi in cui cinquant’anni prima Fielding aveva inaugurato la sua «nuova provincia dello scrivere» (Tom Jones) con una forma di racconto che sarebbe poi diventata l’archetipo del romanzesco, attiva in un’epoca in cui le atmosfere gotiche e l’esaltazione romantica delle passioni dettavano la tonalità dominante del genere, Jane Austen ha trovato e perseguito senza esitazione una modalità rappresentativa che non si faceva scrupolo di raccontare fatti banali, situazioni comuni, sentimenti quotidiani.
“Un ballo in una città di provincia; alcune coppie che si incontrano e si tengono per mano in una sala dove si mangia e si beve un po’; e, come “catastrofe”, un ragazzo che viene umiliato da una signorina e trattato con bontà da un’altra. Nessuna tragedia, nessun eroismo.” (V. Woolf, Jane Austen, in Il lettore comune)
Non è certo un caso che una lettrice attenta come Virginia Woolf, protagonista di quella stagione del romanzo novecentesco che aveva costruito la propria identità sul rifiuto delle logore strategie della narrazione rocambolesca, notasse proprio questa assenza di tragedia e di eroismo. Nei romanzi di Jane Austen le scene di tensione si contano sulle dita di una mano, i drammi si disperdono tra le lunghe campiture della vita quotidiana, i gesti eroici sono ridimensionati, privati di qualunque valore pubblico o collettivo, rideclinati nella forma più modesta ma tanto più realistica delle piccole insurrezioni del carattere contro le convenzioni sociali, dei piccoli istanti di resistenza che tentano di procurare una felicità del tutto privata. Anche quando gli eventi prendono la piega più cupa, e il destino di qualche personaggio si risolve nella tragedia banale e inesplosa di un futuro grigio, privo di gioie speciali, il realismo ironico della scrittura riesce ad allargare il campo e a ricordare a chi legge che quello è soltanto uno tra le tante migliaia di casi simili, una delle innumerevoli parabole umane che si sono esaurite senza arrivare mai a toccare altezze particolarmente luminose o abissi particolarmente scuri, e che sono semplicemente la normalità della condizione umana sulla terra.
Eppure, allo stesso tempo, per ognuno di questi drammi miniaturizzati e di questi sentimenti comuni e situazioni semplici, Jane Austen è capace di risvegliare il nostro interesse e la nostra più convinta partecipazione empatica, trovando sempre il punto di equilibrio nel quale l’esercizio della lucidità dissacrante con cui svela le meschinità al di sotto dei comportamenti umani riesce a convivere con i toni della serietà e della comprensione. Non importa se ci ha appena divertiti con spassosissime pagine di critica sociale indirizzate alle pratiche di contrattazione matrimoniale delle famiglie della middle-upper class inglese, o con brani di tagliente condanna verso la scarsa educazione alla vita reale delle ragazze cresciute in un ambiente che mira a farle essere solo invitanti fidanzate e poi mogli dignitose: al tornare della voce narrante sulle vicende dei personaggi torniamo immediatamente capaci di prendere del tutto sul serio i momenti di dolore di Elizabeth Bennet e di Anne Eliot, di immedesimarci nelle delusioni di Emma Woodhouse e di Catherine Morland. Tutto è ridicolo, e nulla lo è.
Questa combinazione dall’apparenza poco attraente – raccontare romanzo dopo romanzo sempre la stessa storia fatta di scene inconcludenti in cui individui normali investono energie e sentimenti e danno valore a piccoli fatti banali – non è solo ciò che caratterizza i romanzi di Jane Austen, ma è in fondo anche il motivo per cui Jane Austen è ancora tra di noi. Guardiamoci intorno: pochi romanzieri ottocenteschi hanno una presenza altrettanto viva nella cultura popolare, pochissimi scrittori in generale hanno generato rappresentazioni così capaci di resistere all’invecchiamento che colpisce i prodotti artistici, forse nessuno è altrettanto amato da Hollywood e dal mondo della televisione, sia tra chi ne produce i contenuti sia tra chi li fruisce, e la lista delle trasposizioni dirette o indirette delle sue opere è sterminata. Eppure è impossibile non notare come questa presenza sia paradossale. Certo: Hollywood ama Jane Austen perché i suoi contenuti sono elementari, incontestabili, capaci di garantire un’identificazione pressoché universale (come il successo di pubblico e di incassi testimonia).
Ma questa preferenza per una facile immedesimazione emotiva non è priva di rischi: ogni volta che la si tenta, ci si espone al sempre scomodo confronto con “l’originale”, si va incontro al rifiuto dei lettori appassionati che non accettano la rivisitazione, si scommette un’enorme quantità di denaro sulla riproposizione di una comune storia di matrimonio, dai passaggi prevedibili e dal finale scontato, e questo in un’epoca in cui i generi popolari sono ossessionati dall’originale, dal mai-visto-prima, dalle trame convolute o violente, dal grandioso (l’esplosione dei supereroi al cinema) e dal tragico (il parallelo successo dei biopic di tonalità drammatica), dalla moltiplicazione degli spin-off e dei cross-over che alludono a un’idea di mondi narrativi come frattali infinitamente frazionabili e sempre colmi di eventi, avventure, drammi, in cui tutto è rilevante e pregno di conseguenze, nulla è grigio. E tuttavia, paradosso (più o meno apparente) a parte, Jane Austen abita la nostra cultura pop e la abita con forza: nei cast dei film tratti dalle sue opere o dalla sua vita recitano le attrici migliori e più in vista del momento e vengono impiegati budget altissimi, i luoghi della sua vita e i musei a lei dedicati sono visitati da decine di migliaia di persone ogni anno, le battute dei suoi personaggi e le citazioni dei suoi scritti circolano sul web. Come mai?
Una risposta unica a questa domanda probabilmente non esiste, ma una delle risposte potrebbe essere questa: perché i suoi romanzi realizzano la delicata alchimia che tutti sperimentiamo tra la consapevolezza della frazione infinitesimale di importanza che ognuno di noi ha nel mondo e l’impossibilità di distanziarci dal valore assoluto che le nostre esperienze individuali, per piccole che siano, hanno per noi nel momento in cui le viviamo. Jane Austen ci racconta le vite normali in un modo che le redime dalla loro normalità: cancella la distinzione stereotipica che tende a mettere da una parte il dramma e la serietà e dall’altra l’ironia e il distacco emotivo; ci mostra come ciascuno di noi sia solo un ingranaggio nel meccanismo, triste e un po’ ridicolo, delle piccole faccende inutili e delle illusioni quotidiane in cui tutti sono presi, prendendo in giro ogni nostra pretesa di sentirci speciali. Ma allo stesso tempo ci dimostra che le passioni che proviamo sono sempre degne della massima considerazione e formano in ultima analisi l’unico vero tessuto connettivo che ci rende comprensibili gli uni agli altri.
Le storie narrate da Jane Austen evitano i drammi titanici e i rocamboleschi rovesci di fortuna con la stessa accuratezza con cui scrittori della sua generazione li ricercavano e filavano precise trame in cui inserirli, ed è questa sua capacità di rappresentare la vita umana nel suo scorrere quotidiano, al limite dell’inenarrabile, a dettare la sua modernità nel mondo occidentale contemporaneo. Se le sue opere ci parlano ancora è perché rappresentano con precisione la forma essenziale delle nostre esistenze, in cui l’unico vero interesse che accomuna gli individui è il desiderio di portarsi il meno lontano possibile dalla propria felicità privata, possibilmente trovando quel punto di equilibrio tra ironia e partecipazione che permette di mantenere uno sguardo lucido e laico sul piccolo ruolo che abbiamo rispetto alla totalità delle cose, ma allo stesso tempo di non estinguere il valore della nostra esperienza nel mondo.