Joplin, la prima grande rockstar femminile, nel sontuoso documentario di Amy J. Berg. Ci ha messo 8 anni a farlo, ma regala suoni e immagini indimenticabili
Amy J. Berg ha impiegato quasi otto anni per completare Janis, il suo sontuoso documentario dedicato a Janis Joplin. E ha cominciato a girare anni fa proprio dove Janis è nata, a Port Arthur, Texas. Non per rigore filologico, ma perché lì era la chiave che avrebbe permesso di capire la disperata necessità di Janis di essere accettata. Lo racconta un suo compagno di scuola. Provate a pensare cosa fossero gli anni ’50 in una cittadina texana, quindi del Sud, quindi razzista con tanto di Ku Klux Klan e pregiudizi, e il conformismo a fare da linea guida.
E provate a pensare a una ragazzina non bella, con la pelle bruttina, un po’ sovrappeso, anticonformista e amante del blues. Per lei si sprecano i termini spregiativi, da “nigger” a “freak”. E lei è lì, compressa tra la volontà di compiacere i genitori ed essere approvata dagli altri, e la sua indole ribelle e libertaria. Un’adolescenza da emarginata. Ma il peggio deve ancora venire, quando all’università del Texas dei cialtroni incaricati di redigere il giornale del campus la eleggono “l’uomo più brutto dell’università”.
A quel punto Janis non molla il colpo, anzi molla quei miserabili texani per andarsene a San Francisco. È il luogo dove i giovani respirano libertà e tutto sembra possibile, dove si pubblicano libri e poesie, nasce una musica mai sentita prima, dove si sperimentano le droghe, tutti sono accettati, la psichedelia è imperante. Lì Janis si ritrova. Entra a far parte della scena musicale, suona con Big Brother and The Holding Company, conosce altri musicisti, è ingorda di vita e di amore. Sbanda anche, certo, ma ha trovato la sua strada. La carriera decolla, il suo genio musicale è debordante, ha una voce che graffia l’anima e le sue canzoni sono straordinarie grida che partono dal suo cuore e arrivano al cuore del pubblico.
Monterey è una pietra miliare, Woodstock un inciampo, Los Angeles e Londra un trionfo. Lì, sul palco, Janis instaura con il pubblico un rapporto che è di puro amore, orgasmico. Poi, però, quando tutto finisce, per lei è solitudine, la sua risata cavernosa e contagiosa non basta, non bastano più neppure le droghe: «Spero ci sia là fuori qualcuno che mi sappia dire perché l’uomo/l’amore vogliono lasciarmi nella sofferenza», canta in Ball and Chain. Si prende qualche anche piccola rivincita, come il ritorno a Port Arthur per il decennale della maturità: gli ex compagni tutti lì, zavorrati dalla mediocrità, lei invece ormai vola alta.
Ma non le importa la celebrità, vuole l’amore, che trova quasi per caso durante un viaggio in Sudamerica quando sta cercando di smetterla con droga e alcol. Lì incontra un hippy, David Niehaus, insegnante giramondo che non ha la minima idea di chi sia quella ragazza con cui ha iniziato una storia. Si mollano perché lei torna ai suoi vizi, però capisce che David potrebbe essere la svolta. E gli scrive. Lui in quel momento è in Oriente, le risponde di sì con un telegramma: ma Janis non lo leggerà mai, perché è la notte del 4 ottobre 1970 e lei, dopo il concerto, è rientrata sola nell’albergo di Los Angeles, e dopo diversi mesi ha ceduto. Prima un buco di prova, come ha sempre fatto, seguito da quello con la roba. Letale. Lo conferma il coroner, che trova buchi cicatrizzati da tempo e solo quei due freschi. Il mattino dopo, alla reception, qualcuno trova la lettera di David, che, forse, avrebbe potuto salvarla. Invece Janis è entrata quella notte nella schiera maledetta dei musicisti straordinari morti a 27 anni: Brian Jones, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Amy Winehouse.
La forza del documentario di Amy J. Berg sta non solo nel mostrare i fantastici materiali di repertorio dai quali emerge la forza e la sensibilità musicale istintiva di Janis (alcuni davvero straordinari, come una versione inedita di Me & Bobby McGee), ma soprattutto nell’aver dato spazio alle lettere (è Gianna Nannini la loro voce nella versione italiana) e alle immagini fornite dalla famiglia attraverso il fratello e la sorella, Michael e Laura Joplin. Alla fine il risultato un piccolo capolavoro sulla prima grande, indimenticata, rockstar femminile.
Janis, di Amy J. Berg, film-documento su Janis Joplin
Quando John Lennon “scappò” in Andalusia
La ricca stagione di musica su grande schermo, tra fiction, biografie e “live”, avviata dallo struggente Amy sulla breve e drammatica parabola Winehouse, e dal barocco ma potente The Wall di Roger Waters, si arricchisce ora, oltre che col magistrale Janis, anche con una divertente commedia di viaggio, La vita è facile ad occhi chiusi, che viene dalla Spagna, è datata 2013 e firmata da David Trueba. Nel 1966 John Lennon fece un viaggio per certi versi un po’ misterioso (si parlò perfino di rottura con i Beatles) ad Almeria, in Andalusia, per girare il film di Richard Lester Come ho vinto la guerra, e in quella occasione scrisse il celebre pezzo Strawberry Fields Forever: questo, nel divertente script di Trueba, dà luogo all’idea che un professore di inglese e latino, positivo e aperto, nella repressiva Spagna franchista (interpretato con molto brio da Javier Camara), decida di mettersi in viaggio per cercare di avvicinarlo, incontrando sulla sua strada e coinvolgendo in questa buffa, liberatoria avventura, anche Belén (Natalia de Molina), ventenne incinta che non sa dove andare, e Juanjo (Francesc Colomer), sedicenne scappato di casa.
Vincitore di sei Goya (gli Oscar spagnoli) è un esempio intelligente e ben raccontato di mix tra miti pop, musica mitica, cineromanzo “storico” e riflessione sul proprio passato. Infine per i fan del popolarissimo gruppo indie rock canadese Arcade Fire (e forse non solo) arriva il 14 e 15 ottobre nelle sale, distribuito dalla Nexo, The Reflektor Tapes diretto da Kahlil Joseph e premiato dal pubblico al Sundance Festival 2013, che mescola musica live e arte, storia della band e profili dei singoli componenti. (Gabriele Porro)