Sentito al Santeria di Milano il sassofonista britannico, figura di spicco della “London Jazz Scene”
JazzMi continua a macinare concerti (vedi anche Cultweek del 18 ottobre) a un ritmo serratissimo; stargli al passo è impresa ardua. Tra le moltissime opportunità in cartellone abbiamo scelto di andare sabato sera al Santeria per assistere alla performance in trio di un protagonista del panorama jazzistico internazionale, il giovane sassofonista londinese Shabaka Hutchings. Noto soprattutto per i diversi gruppi che anima, lo abbiamo visto esibirsi in un contesto diverso e originale: ad affiancarlo, infatti, erano due musicisti di diverse estrazioni e di cui parleremo più avanti, Majid Bekkas e Hamid Drake.
Senza conoscere Shabaka Hutchings, potreste scoprire di avere già sentito il suono del suo sassofono. La sua attività, non facile da inquadrare, infatti si dispiega in una miriade di progetti diversi. Come accennato, ha fatto parte di alcuni gruppi di spicco della “London jazz scene” di cui è stato uno degli animatori: i The Comet is Coming e i Sons of Kemet. Il suo ultimo lavoro discografico risale al 2022 ed è anche il suo album di debutto come leader, Afrikan Culture. Sotto il nome di Shabaka and the Ancestors, nel 2020 era uscito un altro album ben accolto dalla critica e dal titolo We Are Sent Here by History. Shabaka è un artista prolifico e creativo abile nel suonare diversi strumenti a fiato, sia tradizionali come il sassofono, il clarinetto e il flauto, sia di derivazione folklorica come flauti africani in legno o lo shakuhachi giapponese.
Anche Majid Bekkas, musicista di origine marocchina, è un artista versatile: oltre che cantante e compositore, infatti, suona una gran numero di strumenti appartenenti al folklore del suo paese di origine, primo fra tutti il guembri, una specie di basso a tre corde appartenente alla tradizione Gnawa.
Hamid Drake, invece, è un batterista e percussionista statunitense che ha partecipato a progetti musicali che spaziano dal free jazz di Don Cherry alla world music fino al reggae.
Insomma, la componente etnica è un elemento portante nella musica di questo trio, sia dal punto di vista timbrico che formale e melodico-armonico.
Nel concerto la voce di Bekkas, spesso accompagnata dal suo guembri, è stata un elemento imprescindibile tanto quanto il sassofono di Hutchings. Le melodie che intonava, arabeggianti, erano punteggiate dalle frasi del sax tenore che a volte ne copiava la musicalità o più spesso le variava e le usava come spunto per le sue improvvisazioni. Queste erano volutamente ripetitive, dall’effetto incantatorio, quasi che si volesse coinvolgere il pubblico in un rituale collettivo. Ciò In coerenza con un toccante discorso di Drake riferito alla fratellanza, alla comunione con gli altri e all’energia che la musica può creare quando è condivisa non solo dai musicisti, ma da tutti, anche da chi partecipa ascoltandola. E in questi lugubri e tristi giorni di guerra, non si potevano che recepire con commozione e profonda partecipazione le sue parole.
Dal punto di vista strettamente musicale, ci sono stati almeno un paio di momenti di grande interplay in cui i tre musicisti insieme sono riusciti a sprigionare un’ondata di suoni impressionante e avvolgente. Gli assoli del sassofono di Shabaka si concedevano spazi di libertà, sostenuti dagli interventi degli strumenti dei suoi compagni che lo assecondavano con prontezza e invenzione. A tratti nel processo incantatorio sembrava che la musica ristagnasse, faticando a trovare una propria strada, in discesa o in salita che fosse.
Ancora una volta, dunque, i confini di genere sembrano dissolversi e si ripresentano le domande, forse capziose: che cosa è il jazz? Quali sono gli elementi che aiutano a definire un genere? A stabilirne i confini? Del resto molti giovani musicisti stanno portando avanti una ricerca che li spinge in territori inesplorati, ai confini, appunto, dei più diversi generi e stili. Questo li rende difficilmente inquadrabili e i festival jazz sembrano essere i luoghi più accoglienti per le loro sperimentazioni. Certo, se qualcuno avesse partecipato al concerto di Shabaka nella speranza di ascoltare accordi, standard riconducibili direttamente allo swing o al blues, sarebbe rimasto deluso. Nessuno di questi elementi si potrebbe trovare nella “London jazz scene” che, sulle prime, verrebbe da definire world music più che jazz.