In occasione del concerto che si terrà a Milano (in scaletta brani di Lindsay Cooper, Hugh Hopper dei Soft Machine, Robert Wyatt e un inedito dello scrittore e musicista inglese Jonathan Coe), ci siamo fatti raccontare dal batterista e compositore la sua esperienza e i progetti futuri con l’orchestra nata nel cuore del quartiere Isola della metropoli lombarda
Artchipel Orchestra è un ensemble dalle molteplici anime. La più importante è quella che cura le diversità, le abbraccia e le coniuga in un’unica espressione: la musica. L’orchestra è diretta dal compositore e batterista Ferdinando Faraò, mente e motore della formazione, che varia dai ventidue ai venticinque musicisti. Venerdì 7 ottobre si esibirà per JazzMi al Volvo Studio di Milano (ore 19.30) nella versione “bonsai”, in miniatura, con otto dei suoi componenti (Fior, Zenga, Ciceri, Faraò, Gallucci, Pedeferri, Alberti, Lecchi).
«Esiste un modo conciliante di fare musica: il solito brano ti prende per mano, ti accarezza, ti coccola e ti dice “ecco, adesso usciamo da casa, facciamo un giro nel parco, poi torniamo a casa, vai a letto e ti rimbocco le coperte”, e il brano finisce. Ma esiste in musica anche una bellezza ferita, di chi la fa lacerando i suoni. Ecco, in questi momenti bisognerebbe ascoltare senza avere pregiudizi, lasciandosi trasportare e accettando la diversità. Dobbiamo fare viaggi in lidi sconosciuti e abbandonarci al mistero». Così Ferdinando Faraò ci introduce a un’idea di contatto con le nuove forme del jazz che molto ha a che fare con l’apertura a quell’altro a cui l’ensemble Artchipel dedica il proprio lavoro e un impegno manifestamente sociale.
Qual è l’esperienza da cui nasce Artchipel Orchestra?
Artchipel Orchestra ha un’anagrafica ben precisa, ha una data di nascita addirittura: maggio 2010, quartiere Isola di Milano, in occasione dei 10 anni dell’AH UM jazz festival. All’epoca io lavoravo parecchio come sideman, come batterista, in gruppi molto diversi tra loro, così pensai di mettere insieme un grande ensemble di musicisti. Al mio appello risposero in molti e nacque Artchipel Orchestra.
Ferdinando Faraò (Foto di Walter Miglio)
Dopo quel primo concerto furono i musicisti stessi (molti di loro non si erano mai incontrati prima) a interessarsi al nuovo contesto. E così, in modo più o meno cosciente, questa orchestra nasce per mettere insieme delle diversità e mantiene nel tempo questa dinamica, armonizzandole e pensandole come elementi di ricchezza.
Nel 2011 ci ripresentammo insieme al festival con un repertorio dedicato a musicisti inglesi come Alan Gowen, a cui siamo molto affezionati, e poi da lì la nostra attenzione ha iniziato a rivolgersi a tutta quella scuola britannica legata a Canterbury (Soft Machine, Robert Wyatt) e ad altri musicisti come Mike Westbrook con cui abbiamo poi collaborato coronando alcuni nostri sogni e facendo diventare in alcune occasioni questi nostri eroi parte dell’ensemble. Per noi l’orchestra è stata ed è una fase di crescita, di sviluppo di idee e di contenuti.
Ch repertorio presenterete a JazzMi il 7 ottobre?
A JazzMi porteremo un repertorio di brani di vari autori a cui ci siamo rivolti in questi dodici anni di attività e che amiamo particolarmente. Presenteremo brani di Lindsay Cooper, Hugh Hopper dei Soft Machine, Robert Wyatt e anche un nuovo brano dello scrittore e musicista inglese Jonathan Coe, ancora inedito a Milano. Sarà quindi un repertorio di autori misti, con i quali nel tempo abbiamo determinato quello che potremmo definire lo stile della nostra orchestra.
A quali repertori attinge l’orchestra? Fate riferimento a una scena progressive e rock, come quella di Canterbury, che ha un approdo nel jazz?
Certo, non si tratta sicuramente di ortodossia jazz, ma gli autori a cui ci riferiamo non sono semplicemente rock o progressive, perché sono musicisti che hanno un retaggio culturale musicale enorme. Se si pensa a un chitarrista come Phil Miller, a cui abbiamo dedicato un disco intero, ha un retaggio jazzistico pauroso: dal punto di vista armonico ha addirittura sviluppato un linguaggio che ha saputo andare oltre quello di tanti jazzisti. Il solo campo del progressive rock è sempre andato un po’ stretto ad Artchipel. Infatti, alcuni dei musicisti a cui facciamo riferimento, come Lindsay Cooper, mescolavano nella musica che componevano Stravinskij, Schoenberg e Coltrane. È musica che è impossibile etichettare perché ha un’enorme varietà di linguaggi diversi. Ed ecco che torna il tema della diversità, che è il fulcro del nostro percorso.
E perché il nome Artchipel?
Anche il nostro nome parla di differenze, significa “arcipelago”. Essendo nata nel quartiere Isola, abbiamo pensato che l’orchestra si componesse proprio come l’incontro di diversi nuclei, di diverse isole di persone che si mettevano insieme e che in qualche modo comunicavano tra loro.
Un’orchestra come può realizzare un potenziale musicale che in altre formazioni non emerge?
Un’orchestra oltre al potenziale musicale ha un forte potenziale sociale, un potenziale umano e culturale. Noi molte volte siamo troppo concentrati sul prodotto. Invece il potere sociale, culturale e anche politico di un’orchestra è quello di attivare un processo. Il prodotto finale è solo una conseguenza, ma non è l’obiettivo principale. L’orchestra, per sua costituzione, è composta da persone che si mettono insieme, che hanno ruoli diversi e interscambiabili e che in questo contesto compongono, dirigono, eseguono, sono performer, dibattono, discutono, e perciò formano una comunità. L’orchestra è una comunità che attua dei processi, che nel territorio sono molto importanti e creano dinamismo.
Noi abbiamo ideato un format che si chiama Artchipel Hub, aperto ai musicisti che avendo semplicemente voglia di partecipare possono unirsi all’ensemble. Così la nostra musica diventa anche un fattore sociale: questa è la forza dell’orchestra.
L’esperienza della vostra orchestra passa anche attraverso l’improvvisazione: che importanza ha e come la gestisce un direttore?
Assolutamente, in termini di percentuale a volte l’improvvisazione supera anche la partitura scritta. Con Artchipel abbiamo sviluppato un approccio all’improvvisazione per orchestra che è un po’ diverso dall’improvvisazione tradizionale. Abbiamo sviluppato questo senso di improvvisare collettivamente, grazie a una collaborazione con Adam Rudolph, che da anni si sta dedicando a quella che lui chiama “organic orchestra”, con un metodo sia compositivo sia di conduzione estemporanea che segue degli schemi, delle strutture definite. Questo ci ha dato gli stimoli per affrontare un’improvvisazione non soltanto legata alla musica jazz: abbiamo pensato a un’idea di circolarità all’interno dell’esecuzione in cui si creano dei riferimenti al tema ma anche delle scomposizioni del tema stesso, dei “ferimenti”, che pure creano un dinamismo circolare all’interno dello sviluppo del tema. Esistono quindi questi momenti, oltre all’improvvisazione solistica, di abbandono della struttura e di rinascita di una struttura estemporanea, ogni volta diversa, che sta nelle mani del direttore che usa l’orchestra come un vero e proprio strumento. Questa è composizione improvvisata, è un caos organizzato.
Qual è il panorama delle orchestre, in particolare jazz, in Italia?
Il territorio italiano è disseminato di orchestre. In Italia abbiamo tantissime orchestre indipendenti, orchestre regionali che ancora purtroppo difettano della mancanza di un coordinamento nazionale. Solo a Milano ci sono almeno quattro o cinque realtà interessanti e attive sul territorio, quasi sempre indipendenti. Rimangono però un po’ ai margini, non ricevendo particolare attenzione nei festival, nei programmi culturali. Mentre andrebbero portati avanti format che propongono spazi dedicati interamente alle orchestre, magari all’interno degli stessi festival o di rassegne.
Purtroppo oggi le orchestre indipendenti restano in continua ricerca di fondi, per rendere sostenibile la loro attività.
Qual è la tua percezione della scena musicale italiana di oggi?
Esiste ormai da tempo una dinamica economico finanziaria che ha invaso tutti gli apparati, anche quello culturale. Oggi anche molti musicisti sono imprenditori di se stessi. La dinamica che si è sviluppata è sempre quella che li porta a vendere il proprio prodotto. È una logica egemone che alla fine schiaccia i musicisti, perché anche nell’imprenditoria musicale esistono delle logiche di vendita tese a fare più soldi possibili, per poter vivere di questo mestiere. L’Italia è un paese in cui pensare a una cultura di sistema, di rete è difficilissimo, perché è fondamentalmente un paese individualista.
Bisogna impegnarsi perché le associazioni possano lavorare tra di loro, possano interscambiarsi. Questo può avvenire con il raggiungimento di un’autonomia da parte loro, altrimenti si diventa subalterni a un sistema che alla fine ci schiaccia.
Se dovessi indicare una scena jazz interessante quale sceglieresti?
Devo dire che ultimamente filtro le proposte musicali grazie ai miei figli e ho il sentore che una scena musicale molto interessante adesso sia quella inglese. Credo che anche JazzMi stia aprendo una bella vetrina sulle nuove espressioni e scene artistiche internazionali. In questo momento molto succede a Londra, ma poi c’è sempre New York, dove la scena dei club è molto vivace. Da lì passano musicisti molto bravi e molto giovani, spesso legati alla tradizione, ma anche portati alla ricerca e alla sperimentazione.
Ho un rammarico invece per quanto riguarda l’Italia, perché non si dà abbastanza spazio alla musica improvvisata, la musica di improvvisazione radicale, che purtroppo è stata emarginata, perché in Italia c’è il grande mito della melodia per cui tutta la musica deve essere compiacente.
Progetti futuri di Artchipel e del Faraò batterista?
È imminente l’uscita del cd allegato alla rivista Musica Jazz di novembre con il concerto dell’Artchipel Orchestra registrato l’anno scorso a JazzMi, insieme a Jonathan Coe. Per il 2023 poi l’orchestra ha messo in cantiere tutto il materiale dedicato a John Greaves, bassista gallese spesso attivo anche in Italia, per poi pubblicare questo lavoro. Come batterista invece ho il piacere di collaborare con diversi gruppi, tra cui Alberto Dipace Trio con il quale gireremo in Italia e in Europa per presentare il disco (A dreamy Journey) in uscita a ottobre, e poi il Freedom Suite Trio, insieme a Marc Abrams e Giulio Martino, con cui suoneremo la Freedom Suite di Sonny Rollins il 12 ottobre a Milano e a seguire in Val d’Aosta.
In copertina: foto di Dario Guerini