10 giorni di musica. Oltre 150 eventi, 500 musicisti sparsi su tutto il territorio cittadino. JazzMi ha contagiato la città. E in mezzo alla gente c’eravamo anche noi per il piacere di ascoltare, ma anche per registrare le impressioni del numerosissimo pubblico
Ha preso il via insieme all’autunno milanese la seconda edizione di JazzMi, in una città blue, malinconica come la tradizione in cui il jazz ha le sue radici. Ma nei palazzi di Milano le luci e il pubblico rendono il festival molto più vivo di quanto avrebbe potuto immaginare Frank Zappa quando diceva che il jazz «ha un odore un po’ curioso». Teatri, musei, biblioteche ospitano una rassegna a cui gli spettatori iniziano già ad affezionarsi. Difficile citare solo qualche appuntamento – sono più di 150 – più giusto sarebbe sfogliare il programma alla ricerca dei propri interessi o per lasciarsi stupire dai profili degli artisti partecipanti. Ma basta metter piede fuori di casa per inciampare in un evento, dalle attività ludiche per i bambini, fino ai concerti di giovani dilettanti e vecchie glorie.
«Noi siamo in visita a Milano, ci capita spesso di venire qui da Vicenza, e questa volta abbiamo approfittato di JazzMi per visitare luoghi che non avevamo visto prima. Abbiamo assistito al concerto di Cosimo & the Hot Coals e alla mostra di ritratti di Roberto Masotti (Life size Acts, ne abbiamo parlato la settimana scorsa) a Palazzo Litta: il luogo è spettacolare, e ci ha introdotti in un mondo, quello del jazz, che non siamo abituati a frequentare». Il merito della rassegna è infatti, in parte, quello di aprire al pubblico gli spazi della città (tra i tanti la Galleria d’arte moderna e il museo del Novecento) e di avvicinare anche chi non ama l’impro a questo universo, che spazia dal soul all’hot jazz. Rimane qualche volto perplesso nella folla, qualche scettico del genere, ma c’è soprattutto stupore, un apprezzamento inaspettato.
Milano sembra tornare in fermento, almeno quando raggiungi le location: gli interni della manifestazione sono dinamici, l’affluenza nel weekend è superiore alle aspettative, racconta il personale di JazzMi nel tentativo di gestire gli ingressi agli eventi gratuiti. «Vogliamo far entrare tutti, non ci aspettavamo così tante persone, ma siamo felici della partecipazione e dell’entusiasmo del pubblico». Certo, fuori il clima resta nebbioso, è difficile percepire la presenza del festival nelle strade, non siamo a Umbria Jazz, ma quando si entra in Triennale, e nei teatri della rassegna, l’atmosfera matura e gli spettatori si raccolgono intorno al comune entusiasmo per qualcosa che a Milano «non si vedeva dagli anni settanta», come bisbigliano tra il pubblico le voci più longeve.
I pubblici dei concerti a pagamento sono spesso più legati all’artista che a JazzMi nel suo complesso, ma riconoscono nel festival il deus ex machina che ha il merito di aver ridato a Milano il ruolo di centro attrattivo per una manifestazione su questo genere musicale. Come dicono i De La Soul, nella serata di cui sono protagonisti all’Alcatraz, «this is not a movie»: il jazz, l’hip hop, la musica dal vivo non sono un film. È vero, JazzMi in questi giorni sta ridando al pubblico il gusto della musica dal vivo, riporta l’improvvisazione del jazz nella vita della città. Così è anche, e moltissimo, per il concerto di Gaetano Liguori, pianista combattente, politicamente impegnato negli anni settanta e che non ha mai smesso di esserlo: una platea appassionata, commossa dai suoi brani “di lotta” prima e dall’ingresso del padre, Lino Liguori, poi, che alle prese con la batteria, pur vicino ai novant’anni, è instancabile. Un altro concerto, folgorante, che ricorda le origini spirituali e di liberazione del jazz è quello guidato da Shabaka, sassofonista londinese, insieme ai suoi Ancestors: improvvisazioni magistrali, un disegno luci di grande suggestione, in un’atmosfera che ricorda gli scantinati fumosi di New York, e un canto poetico che invoca la lotta per i diritti dei neri e delle donne.
«È un’occasione interessante per scoprire cose nuove – spiega una giovane ragazza all’uscita dal concerto di Andrea Motis, lei stessa ventunenne trombettista barceloneta – e sarebbe ancora meglio se venisse espansa la parte dilettantistica o underground, come a Pianocity, dove si organizzano concerti in case private anche con musicisti non professionisti: per il jazz sarebbe la morte sua!». Insomma, si sogna di inseguire il clima di New Orleans, di aprire le porte e di uscire per la strada. Per il momento, quello ideato e modellato dai direttori artistici Luciano Linzi e Titti Santini è un carnet ricchissimo, che in undici giorni porta a Milano molti dei musicisti più interessanti del jazz italiano e internazionale (sono già passati da qui Stefano Bollani, Enrico Intra, Paolo Fresu), e allo stesso tempo fa scoprire l’hip hop “delle origini” dei De La Soul, il piano pop di Chilly Gonzales (venerdì 10 al Conservatorio), e le melodie elettroacustiche di Rob Mazurek (stasera al Teatro dell’Arte con Jeff Parker) e dei Kneebody (domenica 12 novembre al Blue Note).
E ancora, se durante questa settimana non potete perdervi il mito della chitarra di Bill Frisell (giovedì 9 in Triennale), nel weekend avete ancora l’occasione di conoscere la giovane voce di Xamvolo, la batteria di Makaya McCraven (all’Arci Biko) o il suono inconfondibile del trombone di Mauro Ottolini. Per chiudere in bellezza domenica con Jan Garbarek.
«Non immaginavo potesse piacermi così tanto», una madre ringrazia il figlio a fine concerto: non avrebbe mai ascoltato jazz dal vivo se non fosse stato per lui. E se non fosse stato per JazzMi non avrebbe trovato l’occasione. In questi giorni possiamo riporre le macchine fotografiche, i cellulari, come ha chiesto Kelvin Mercer all’inizio del De La concert, e partecipare, per almeno un brano, a un rito che ci lega anima e corpo alla musica.