20 anni senza Jeff Buckley, il misterioso ragazzo dalla voce divina

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Un debutto denso di futuro quello del cantautore e chitarrista americano. Un futuro che si è dissolto nella morte improvvisa a soli trent’anni. Analisi di “Grace”, capolavoro che ha segnato la storia del rock

Partiamo dalla fine. Jeff Buckley, chitarrista e cantautore statunitense, muore all’età di 30 anni per annegamento accidentale il 29 maggio 1997, dopo aver deciso di fare il bagno vestito nel Mississippi. Mentre si immerge, senza paura di niente, canta Whole Lotta Love.

La sua morte arriva durante le registrazioni del suo secondo album, che si sarebbe intitolato My Sweetheart, the Drunk. Uscirà, dopo il lavoro della band sulle demo rimaste, con un titolo che omaggia lo stato di “lavoro interrotto” che lo caratterizza: Sketches for My Sweetheart the Drunk. Un album, nonostante tutto, bellissimo, pieno di poesia e di classe, che ti dà una rabbia incredibile a immaginare cosa sarebbe diventato se Jeff fosse vissuto.

Le sessioni di registrazione di My Sweetheart, the Drunk si portavano addosso tutta la pressione di un album di debutto che, pur cercando di essere più velati possibili, non si può che definire un capolavoro. Grace, uscito nel 1994, aveva un sound come nessun altro, e toccava livelli quasi divini che, ancora adesso, si fa fatica a comprendere. La sua era una voce per cui il mondo non era pronto, specialmente il mondo del rock, per il modo spiazzante che aveva di mettere l’emozione e la fragilità al centro di tutto, ma con una potenza e un’intensità che neanche un pugno nello stomaco.

Grace è un album che ti s’incide addosso. Non mi serve nemmeno più metterlo su, ormai, per ascoltarlo; mi basta pensarci per evocarlo, come un meraviglioso fantasma, come il ricordo di un bagno a mezzanotte. Le note di apertura di Mojo Pin, quel sottile e intricato arpeggio che adorna la canzone, un pezzo che sa di mattina presto e cuore spezzato, sono quasi insostenibili. Ricordo ancora quando, avendo appena ricevuto in dono un giradischi, la prima cosa che feci fu metterci sopra la mia copia in vinile di Grace, che da anni aspettava quel momento. Non scorderò mai i brividi sulla schiena durante il lento apparire del primo arpeggio di Mojo Pin, come se la stessi sentendo per la prima volta. Il vinile, come spesso succede, rivelò una tattilità e una stratificazione di sonorità nell’album che semplicemente non veniva fuori nella versione CD. Quel giorno, il tatuaggio di Jeff sulla mia pelle diventò ancora più profondo.

La title-track, Grace, racchiude un po’ tutto quello che rende Jeff Buckley indimenticabile: la voce angelica e turbata allo stesso tempo, a suo agio nel falsetto più acuto e nel più profondo dei bassi; la poesia inebriante del testo, sospeso tra la vita e la morte, con la voglia di assaporare ogni emozione che esista tra le due; la Telecaster che sfregia e solleva, accompagnando la canzone nella sua avventura tra soul, rock, e folk. La stessa Telecaster che troviamo tuttora come chitarra lead di Jonny Greenwood nei Radiohead che, come narra la leggenda, dopo aver sentito Jeff Buckley dal vivo nel ’94 furono talmente ispirati che si fiondarono in studio a registrare Fake Plastic Trees.

È sempre in Grace che appare Hallelujah, uno di quei rarissimi esempi di cover quasi universalmente ritenuta migliore dell’originale (non ce ne volere, Leonard). Tanto che la gente che coverizza la canzone adesso usa la versione di Jeff come base nella maggior parte dei casi. Questa Hallelujah è molto più scarna dell’originale, ancorandosi sulla voce di Jeff e sull’arpeggio della chitarra acustica, che assieme riescono a evocare qualcosa al di là di questo mondo, che solo lui può vedere. E poi, per menzionarne solo un’altra, Lover, You Should Have Come Over – ancora adesso la canzone d’amore più devastante che conosca, quasi sette minuti fatti di chitarre accarezzate, citazioni shakespeariane, e il funereo suono di una fisarmonica a sancire la fine di un amore.

Queste canzoni nascono dalla gavetta di Buckley, che per anni gravitava nella scena newyorkese suonando in club come il Sin-é, e dalla forte sensibilità musicale sviluppata in una casa in cui la madre era una pianista e il patrigno, un appassionato di musica rock. Il padre biologico, leggendario cantautore Tim Buckley, non conobbe quasi per niente il figlio, a parte un solo incontro durante l’infanzia. Un padre di cui, comprensibilmente, non amava parlare.

Con un solo album durante la sua vita, Jeff Buckley è riuscito a cambiare ciò che la musica rock significa, a influenzare innumerevoli band e cantautori – ho già parlato dei Radiohead, ma aggiungiamoci i Muse, Anna Calvi, e PJ Harvey, che in suo ricordo ha scritto la canzone Memphis, rievocando il luogo della sua morte. Il suono di quella voce, di quella chitarra, non si possono spiegare né razionalizzare; come le pieghe di un vinile, ruvide e confortanti allo stesso tempo, non chiedono altro che essere ascoltate.

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