È morto a Berlino all’età di 81 anni l’artista americano di origine Cherokee Jimmie Durham, artista, saggista, poeta e attivista politico, Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2019 per il suo saper fare un’arte di denuncia ma anche divertente e profondamente umanistica, artista geniale e combattivo, gentile e generoso, a cui molti davano del tu. Un ricordo da chi non lo ha mai conosciuto.
Raccontava Bruno Gambarotta al Festivaletteratura di Mantova di quest’anno che il giornalista Davide Lajolo, “quando morì Paolo VI, scrisse un articolo sull’Unità in cui raccontava di quella volta che il Papa gli disse “Diamoci del tu”. Cases sull’Espresso scrisse allora che i grandi uomini condividono con gli uomini comuni il fatto di dover morire, ma per loro c’è un aggravio in più: quando muoiono scoprono che davano del tu a Davide Lajolo”. Questa sagace battuta, che Gambarotta riferiva al suo rapporto di stima ma non di amicizia con Primo Levi, mi è tornata in mente guardando l’enorme quantità di commenti sui social dedicati alla scomparsa di un grandissimo artista, Jimmie Durham, a cui pare tutti dessero del tu.
Questa volta c’è del vero sicuramente, perché pare che Jimmie Durham – artista, saggista, poeta e attivista politico, Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2019 per il suo saper fare un’arte di denuncia ma anche divertente e profondamente umanistica – fosse una persona schietta e generosa, oltre che un artista veramente straordinario, uno che destrutturando costruiva, negando affermava, assemblando sacralizzava. So per certo della sua generosità relazionale e della sincerità delle esternazioni di dolore ammantate di nostalgia per la perdita del grande amico, vero o presunto che fosse.
Io però posso affermare che a Jimmie Durham davo veramente del tu. Non l’ho mai incontrato di persona e non ci ho mai parlato, ma gli davo del tu da quando nel 1999, dopo aver girato il mio primo video dal titolo Freezer – dove due energumeni mi infilavano in un congelatore come neanche un quarto di bue di Rembrandt o un protomartire nell’arena –, mi trovai visitatore alla prima Biennale di Venezia curata da Harald Szeemann di fronte all’incredibile, paradossale e mitologico Saint Frigo.
Un sentimento di filiazione profondo mi pervase allora, simile a quello già provato per Joseph Beuys, per Bruce Naumann, per Dieter Roth, ma ancora più intenso per identificazione. Dove io mettevo in scena il mio martirio in un freezer simile a un sepolcro o a una camera di manicomio, l’immenso Jimmie trasformava in martire il frigo stesso, asciugando così ancor di più gli elementi dell’azione, amplificandone la potenza espressiva e rovesciando la pratica artistica con la trasformazione del materiale lapideo in attrezzo scultoreo. Un doppio significato, simbolico e concettuale, attraverso una sintesi al limite dell’azione fine a se stessa.
Ricordo di aver chiesto a me stesso perché stessi provando un sentimento così potente di fronte alla quasi vandalica lapidazione di un frigorifero, di fronte a un’azione che oggi sicuramente potremmo trovare su un qualunque tik tok giusto per dire che si son raccolti dei like. Il motivo non poteva che essere nel contenuto di quel frigorifero dentro al quale resistevano, protette dalle lamiere e dal fresco, la storia dell’Arte occidentale e tutti i Santi Stefano e Sebastiano della storia, stretti assieme ai Cherokee di cui lui stesso faceva parte.
Lui, nativo americano che decostruiva concetti e stereotipi tipici della cultura occidentale, denunciando i soprusi e la cancellazione del suo popolo, i diritti delle minoranze, il colonialismo, il razzismo, le dignità negate, l’identità e questioni di genere.
Santi cristiani e sciamani nord americani univano dento a quel frigorifero la loro potenza spirituale in una lotta comune per annullare la frattura tra uomo e natura, tra corpi e spirito, tra arte e vita, strabordando nell’esplosione ironica e drammatica della sua produzione fatta di disegni, collage, fotografia, video e, soprattutto, di sculture fatte con materiali naturali e oggetti trovati, assemblati con l’intensità del sacerdote del culto e la leggerezza del Clown nel senso più antropologico del termine.
A Jimmie Durham io ho dato del tu, tra me e me, ogni volta che ho fatto un nuovo lavoro e ho pensato a lui, ogni volta che ho visto un suo nuovo lavoro e ho pensato a me. Con rispetto e devozione. Con tutta la Pietas di un figlio verso il padre, figlio adottato a distanza che ora lo saluta con commozione profonda e grande nostalgia.