Jonathan Franzen a ruota libera tra attualità, riflessione letteraria e necessità di interrogarsi sul mondo a venire. In sedici saggi uno sguardo libero su quello che siamo, quello che stiamo costruendo, ciò che abbiamo distrutto. Con finale aperto.
Jonathan Franzen, scrittore e saggista statunitense, è annoverato tra i venti migliori scrittori del XXI secolo dal New Yorker, rivista con cui collabora con regolarità dal 1994.
Dopo tre anni di silenzio dal suo ultimo lavoro, nel 2018 esce The End of the End of the Earth, tradotto da Silvia Pareschi e pubblicato in Italia dalla casa editrice Einaudi nel 2019 con il titolo La fine della fine della Terra.
Non si tratta di un romanzo, ma di una raccolta di saggi in cui riflessioni apocalittiche e provocatorie sulla tragica fine che attende il nostro pianeta, in termini ambientali, sociali e politici, si alternano a timide manifestazioni di speranza.
Indifferente dalle imposizioni dell’ortodossia, Jonathan Franzen non si lascia intimorire dai pareri più stimati e popolari. Al contrario, cerca di orientare la sua riflessione a trecentosessanta gradi. Non usa nessuna prudenza e continua a offrire uno sguardo onesto e irriverente, mai banale.
Libera, la retorica di Franzen è positiva e animata da un incrollabile spirito militante, forte di un’onesta volontà di miglioramento e di azione concreta.
Il presidente Donald Trump, il sistema capitalistico in costante accelerazione, lo scontro in materia ecologica fra nazioni sviluppate e in via di sviluppo, la biodiversità, le dieci regole più importanti per scrivere narrativa: nessun tema è lasciato inesplorato da Franzen.
Una scrittura magistrale, ricca di ironia e un’intelligenza acuta e pungente accompagnano il lettore nelle sedici tappe di La fine della fine della terra.
Franzen riflette sulle relazioni fra l’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti, l’egemonica potenza assunta dalle aziende di Zuckenberg e il prosperare nel web di manifestazioni di violenza e di intolleranza.
Uno stile riflessivo e disteso si alterna a frequenti episodi di pungolante provocazione che, tuttavia, si caratterizzano per la volontà di offrire stimoli sempre nuovi: l’autobiografia si mischia alla saggistica e all’articolo d’opinione in un connubio che disorienta e, al tempo stesso, affascina.
Il volume si apre con una riflessione critica intorno al ruolo egemone che ha assunto il saggio nella contemporaneità come forma di espressione della soggettività dell’autore fondata sull’esperienza personale, che ha conquistato le masse, assumendo forme sempre più disparate. Con simpatia, Franzen riporta i consigli datigli dal suo editor al New Yorker, Henry Finder, e si sofferma sulla saggistica come occasione di confronto con la propria identità, come allenamento finalizzato allo sviluppo di opinioni individuali e collettive.
Entusiasmante nel libro è la libertà del pensiero di Franzen che non teme contraddizione o incoerenza e, non si preoccupa, ritornando su un medesimo tema, di svelare un retroscena diverso di volta in volta.
Il birdwatching, attività a cui Franzen è estremamente legato, rappresenta una sorta di filo conduttore attorno a cui si legano i racconti dell’autore in materia di viaggi, di esperienze rivelatorie e, più in generale, di riflessioni che si muovono nello spazio e nel tempo.
Metaforicamente gli uccelli rappresento l’espressione più pura dei desideri dell’uomo. Emblema del volo, della leggerezza, del viaggio, gli uccelli sono dotati della straordinaria capacità di abitare il mondo intero. Sono ovunque: dal deserto cileno ai dirupi dell’Himalaya, da Chernobyl a Berlino.
Consapevole della portata polemica delle sue affermazioni, Franzen sceglie il mondo degli uccelli come stimolo per discutere il nostro, come occasione per affacciarsi al tema del cambiamento climatico focalizzando l’attenzione sui passaggi intermedi della lotta ambientalista e prendendo le distanze dalla prospettiva antropocentrica che caratterizza il dibattito.
La preservazione dell’ambiente e di tutte le forme di vita che lo abitano da parte dell’uomo è considerata da Franzen, in termini collettivi, come l’occasione per esprimere al meglio la natura stessa dell’uomo e, in termini individuali, come un’opportunità di dare un senso e una finalità alla propria singolare esistenza.
Se la retorica che ruota intorno al cambiamento climatico nasconde una narrazione semplice incentrata su un progetto globale, proiettato in futuro potenziale, a oggi invisibile, Franzen sposta il fulcro della questione sul ruolo individuale e sul tempo presente. Della svilente banalità del dibattito, l’autore si propone di svelare, nella discussione collettiva, il lavoro complesso e contraddittorio che esiste dietro gli slogan. Le questioni prese in esame si ampliano: dallo scioglimento delle calotte polari, al ruolo che l’uomo sta avendo nell’estinzione di massa di alcune specie, senza l’intervento dei cambiamenti climatici.
Franzen riflette sulle responsabilità che sul tema del cambiamento climatico hanno avuto le istituzioni e i governi di ogni schieramento politico. I partiti si scontrano causando solo danni: da una parte il gelido realismo di destra, dall’altra le bugie della sinistra, costretta a farsi portavoce, al contempo, delle indiscutibili evidenze della scienza e della farsa retorica che indica come possibili una prevenzione e una cura per la catastrofe imminente e, in modo assoluto, inevitabile.
Che si tratti della controversa questione del cambiamento climatico o del dibattito tecnologico intorno all’uso smodato dei social media e delle conseguenze e emotive e educative a cui condurrà, della tragica fine degli uccelli marini o di quel terribile martedì di settembre che nel 2001 ha cambiato le sorti del mondo, Jonathan Franzen padroneggia ogni argomento con eccezionale lucidità.
«Anche in un mondo dove si muore continuano a nascere nuovi amori» scrive Franzen al termine del libro, lasciando al lettore una luce di speranza dalla quale un giorno potrà sorgere un reale cambiamento.