“L’alleanza dei corpi” di Judith Butler: una lettura per un 8 marzo consapevole
L’otto marzo si avvicina, con tutta la sua carica di contraddizioni, terminologie, definizioni, desiderio di avvicinamento e frammentazione, che compongono la danza frenetica dei femminismi. La filosofa statunitense e teorica del gender Judith Butler torna a riutilizzare il doppio binario di performatività e precarietà per costruire una “teoria dell’azione collettiva”, come recita il titolo originale, molto meno evocativo de L’alleanza dei corpi scelto da nottetempo, per l’edizione italiana nell’ottima traduzione di Federico Zappino.
“La correlazione tra la performatività e la precarietà può essere riassunta da queste domande essenziali: in che modo chi non ha voce parla e rivendica le proprie istanze? Quale tipo di frattura crea che questa rivendicazione nel campo del potere?”.
Dopo una prima parte dedicata a capire “quali esseri umani contano come umani”, all’individuazione di una possibile nomenclatura di chi scende in piazza, di chi è un soggetto precario a causa di un sistema socio-economico e politico, vulnerabile ed esposto alla violenza, Butler riporta al centro la lotta e la rivendicazione dei diritti di un noi che “è messo in atto dall’alleanza dei corpi – plurali, persistenti, agenti, che rivendicano quella sfera pubblica dalla quale sono stati abbandonati”. E lo fanno attraverso l’azione, quella particolare performance che evidenza la negazione di quei diritti rivendicati.
Il respiro teorico di Butler dialoga, per affinità e contrasto, con la lezione politica arendtiana: “essere attori politici è una funzione, un modo di agire in un’ottica di uguaglianza con altri umani” perché “questo ‘io’ è allo stesso tempo un ‘noi’, senza che ciò significhi un’impossibile totalità”. Ma non c’è bisogno di una cornice politica perché questo diritto possa essere rivendicato: per Butler la lotta privata, domestica esiste quanto quella “pubblica e illuminata”, tipica del potere maschile. Riprende diversi episodi recenti di mobilitazioni in cui il discorso del corpo cambia e l’apparizione dei corpi si verifica in modi diversi da piazza Tahrir, Gezi Park o Occupy, dove i corpi si “comportano” come corpi, dove il ritmo di questa “apparizione” è scandito dallo stare insieme, sedersi, dormire, persistere e restare nello sguardo anche di chi è distante ed è connesso attraverso i media ed è “qui e lì” in questa duplice modalità di spazio e tempo. “Un modo per mettere il corpo in prima linea, nella sua insistenza, ostinazione e precarietà, superando la distinzione tra pubblico e privato per il tempo della rivoluzione.
Al cuore dell’intervento di Butler resta però un’antica intuizione: ripartendo dal suo terreno familiare di “queerness” riprende un episodio da lei testimoniato in Turchia dove una manifestazione contro la violenza della polizia sulle persone trans era diventata un’occasione per opporsi alla violenza militare e allargare ancora fino alla solidarietà con la minorità curda. “Queer non disegna un’identità ma un’alleanza”, ci ricorda Butler.
A partire da questo brandello di dna Butler ci mostra come l’azione collettiva sia figlia dell’alleanza tra le proprie minoranze individuali e private. E questa alleanza intima è replicabile all’infinito, un’auspicabile epidemia di inclusività, nel rispetto delle pluralità.
Bisogna stabilire delle connessioni tra le diversità al proprio interno e le altre categorie di popolazione assoggettate alle condizioni di precarietà, perché i diritti hanno senso solo all’interno di una più ampia lotta per la giustizia sociale. Una politica dell’alleanza richiede e si fonda anche su un’etica della coabitazione. Ma questa coabitazione prevede proprio che io trovi il modo di restare nella tensione “tra la volontà di vivere e la volontà di vivere in un certo modo insieme agli altri”: nell’ultimo meraviglioso capitolo Biopolitica: vite senza lutto, domandandosi quale possa essere un’autorità che rintraccia i confini tra vita buona e vita cattiva Butler lascia alla morte e al lutto la possibilità di restituirci un senso di giusta valutazione delle vite, quelle che contano “meno” e quelle che contano di “più”, riprendendo la precarietà, a cui alcuni corpi sono più esposti, e la performatività, ovvero il lutto. Qualsiasi movimento sociale cerca di produrre le condizioni in cui la vulnerabilità e l’interdipendenza diventino vivibili. “Se devo vivere una vita buona sarà una vita vissuta insieme agli altri, una vita che non può essere chiamata vita senza gli altri. Non perderò questo io che io sono: chiunque io sia verrò trasformato dalle connessioni con gli altri, poiché la mia dipendenza dagli altri e la mia “dipendibilità” sono necessarie a vivere, e a vivere bene”.
Ma l’agire di concerto non è agire in modo conforme.
Butler riconcettualizza la libertà di riunione proprio alla luce di quella differenza incarnata dai corpi: cosa succede quando passo dalla vocalizzazione di un diritto astratto alla pluralità di corpi incarnati ognuno con le proprie rivendicazioni? È questo un momento storico in cui si vede con sempre più chiarezza come l’agire di concerto non sia agire conforme e che una stessa lotta porta con sé numerose colorate istanze.
Vorrei qui raccontarvi, nel tentativo di stabilire un’alleanza con questo modo di percepire l’azione collettiva, il mio 8 Marzo, che vivrò insieme ad altre persone affini (qualcuno ci chiamerebbe femminist* ma a me basta sapere di ognuna il nome proprio e la bellezza del sorriso). Proporremo un’azione che riprende un gesto molto antico, l’anasuromai, ovvero alzare la gonna in piazza insieme. Anticamente veniva usato per scacciare il malocchio, i nemici, le tempeste e perfino il diavolo.
AnaSuromai viene dal greco antico, da un verbo che letteralmente significa “tirarsi su la veste”, e trova la sua origine nel mito di Demetra: Demetra, disperata per la perdita di Proserpina, vaga in lutto finché non viene ospitata da una donna, Baubò, che le offre da bere. Demetra rifiuta per via del suo lutto e Baubò, allora, si alza la veste e riesce a farla ridere. Questa risata fa sì che Demetra metta fine all’aridità dei campi a cui aveva condannato il mondo dopo la discesa negli inferi di Proserpina. Noi faremo l’equivalente di far rinascere la vita in piazza.
Abbiamo scelto un gesto che potesse aprire una rivendicazione ampia, diversa: si può alzare la gonna contro la violenza sulle donne, si può alzare la gonna per l’aborto libero e gratuito, si può alzare la gonna contro l’omofobia, si può alzare la gonna perché si ha voglia di farlo, si può alzare la gonna contro il patriarcato. Ma la pluralità non termina qui, perché anche nella modalità del gesto si possono presentare infinite differenze: c’è chi verrà in piazza in versione nature, chi metterà le mutande, chi si dipingerà il pelo di fucsia. Sarà un gesto che faremo insieme, donne, uomini, trans, ognuno con il proprio corpo, ognuno con la propria intima storia politica, un momento dove la vulnerabilità e la lotta si offrono come corpo unico e difforme, composto dalla vitalità di ognun*.