L’ultimo round di Julio Cortázar

In Letteratura

Torna in libreria per le edizioni Sur “Ultimo round” di Julio Cortázar: una inclassificabile opera-caleidoscopio. Provocatoria, curiosa, meticcia, sperimentale, politica, coraggiosa. Se volete capire cos’è un cervello quando si concede la libertà dell’immaginazione, il labirinto è servito. Ed è, naturalmente, memorabile.

Mario Vargas Llosa, introducendo la raccolta dei Cuentos Completos di Julio Cortázar, sottolineava come nessun altro scrittore abbia dato tanta dignità letteraria al gioco, facendone uno strumento di creazione ed esplorazione artistica tanto duttile e fruttuoso.
Ed è con quel rigore da homo ludens che così tanto lo caratterizzava, quello stesso rigore che lo spinge, all’inizio degli anni ’80 a passare un mese in autostrada con la moglie – come due pedine su un tabellone da gioco – per scoprire se Marsiglia davvero esiste (e il resoconto di quel viaggio si può leggere nel bellissimo Gli autonauti della cosmostrada), con quel rigore ludico, insomma, si diceva, alla fine degli anni Sessanta, Cortázar inizia a lavorare a una serie di testi inclassificabili, costruiti sul modello dei collage dada e composti di fotografie, disegni, poesie, racconti, articoli, riflessioni fra le più disparate.
«Questi libri non vogliono essere un’opera – dichiarerà retrospettivamente l’autore – Nascono un po’ dalla nostalgia per quegli almanacchi della mia infanzia che leggevano i contadini e in cui c’è di tutto, dalla medicina popolare alla puericultura, dai consigli per piantare le carote alle poesie. L’unica unità possibile risiede nella scrittura, proviene dal fatto che tutti i testi sono stati scritti da me. Mi piacciono particolarmente perché vanno contro la nozione di genere, ormai piuttosto indebolita, ma ancora in grado di fare disastri. Critici e lettori si sentono tuttora a disagio quando non riescono a classificare un’opera».

Davvero è un’opera inclassificabile Ultimo Round, tornata da poco in libreria grazie ai tipi di Sur: nella sua prima edizione in spagnolo si presentava, nella copertina, come una pagina di giornale onnicomprensiva: un quotidiano surreale in grado di contenere tanto notizie di stringente attualità (le rivolte studentesche, il maggio francese, la battaglia di Saigon) quanto racconti fantastici e notizie paradossali (un uomo, nel tentativo di osservare meglio una mosca che vola al contrario si priva del suo spazio vitale riducendo sempre di più la dimensione della stanza nella quale si trova).   L’apparente gratuità delle associazioni e della sovrapposizione dei piani, la caoticità e la frammentarietà del discorso, in realtà, manifestano una paradossale unità di fondo, in cui tutto è connesso (non a caso Cortázar avverte che «niente è più rigoroso di un gioco»), secondo un principio jazzistico da jam session. Nei libri-almanacco troviamo, infatti, citazioni, racconti, articoli, saggi, poesie, disegni, fotografie, invettive, soluzioni patafisiche, inserti metaletterari, una polifonia di generi e registri unificati da un medesimo trattamento ludico del materiale, in cui l’immagine rimpiazza il linguaggio verbale della narrativa e cerca finalmente di liberarsi dalla disperata ineffabilità che infesta molti dei personaggi di Cortázar.
La componente ludica, inoltre, diviene anche una strategia per condurre in maniera obliqua un discorso politico che riguarda l’anti-imperialismo, l’anti-nazionalismo, la situazione del Sudamerica, la guerra in Vietnam, il Sessantotto, il sistema capitalistico, la dittatura; la struttura dell’almanacco diviene così lo strumento attraverso il quale la riflessione metafisica sulla realtà («realtà questo incubo irreale, questa danza di idioti sull’orlo dell’abisso?») e sull’assurdità del mondo è tenuta assieme e strettamente collegata alla rivendicazione quasi contraddittoria del discorso politico. Particolarmente esplicito, in questo, senso è uno dei testi finali di Ultimo Round in cui l’autore riflette sul rapporto fra intellettuale e politica e che vale la pena citare per esteso:

 

il mio problema, come avrai intuito leggendo Rayuela, è tutt’ora un problema metafisico, una costante lacerazione fra il mostruoso errore di essere quello che siamo come individui e come popoli in questo secolo, e l’intuizione di un futuro in cui la società umana alla fine darà luogo a quell’archetipo di cui il socialismo offre una visione pratica e la poesia una visione spirituale. Dal momento in cui ho preso coscienza del fatto umano essenziale, quella ricerca rappresenta il mio impegno e il mio dovere. Ma non credo più, come ho potuto credere senza difficoltà in altri momenti, che la letteratura di pura creazione immaginativa basti a farmi sentire riuscito come scrittore, visto che la mia nozione di quella letteratura è cambiata e contiene in sé il conflitto fra la realizzazione individuale come era intesa dall’umanesimo e la realizzazione collettiva come è intesa dal socialismo, conflitto che raggiunge la sua espressione forse più lacerante nel Marat-Sade di Peter Weiss. Non scriverò mai apposta per qualcuno, minoranze o maggioranze, e la ripercussione che avranno i miei libri sarà sempre un fenomeno accessorio ed estraneo al mio compito; eppure oggi so che scrivo per, che c’è un’intenzionalità rivolta alla speranza di un lettore in cui risiede già il seme dell’uomo di domani.

 

E più avanti:

 

Incapace di ogni azione politica, non rinuncio alla mia solitaria vocazione di cultura, alla mia ostinata ricerca ontologica, ai giochi dell’immaginazione nei loro piani più vertiginosi; ma tutto questo non gira più attorno a sé e da sé, non ha niente a che vedere con il comodo umanesimo dei mandarini dell’Occidente. In quanto di più gratuito io possa scrivere si affaccerà sempre una volontà di contatto con il presente storico dell’uomo, una partecipazione al suo lungo cammino verso il meglio di sé come collettività e umanità.

 

Questa tensione fra il gioco letterario apparentemente fine a se stesso, il gusto per una letteratura fantastica (influenzata dalle teorie di Roger Caillois) e una vocazione etico-politica, si riflette nell’eterogeneità dei testi e delle immagini: ai disegni e alle foto surreali fanno da contraltare gli scatti che documentano lo stato di indigenza del popolo indiano, così come alle frasi politiche tratte dai muri della Sorbona e di Nanterre e alle poesie sulle rivolte studentesche si alternano racconti fantastici e apologhi paradossali sulle mosche o cammini a ritroso della storia del progresso tecnologico. Il racconto della miseria e del sovrappopolamento in India si accompagna a una riflessione critico-letteraria sull’assenza (e l’esigenza) di una letteratura erotica allegra. L’effetto è quello di un’opera prismatica in cui lo sguardo si frammenta, si scinde per guardare dentro la realtà, di lato, sotto e sopra di essa, da ogni punto di vista possibile. Per indagare anche le zone d’ombra e perdersi vagando in un labirinto di segni.

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