Un narratore inattendibile, degli eroi tanto perfetti da risultare disumani, una città sul crinale di un cambiamento autoritario: “Invidia” di Jurij Oleša (ripubblicato da Carbonio editore) è un romanzo spietato e coraggioso, che parla di un mondo in cui neppure i sentimenti più profondi riescono a salvare – e a salvarsi.
E Kavalerov è un cognome che mi piace. Suona allo stesso tempo solenne e da quattro soldi.
Se volessimo condensare in due parole Invidia di Jurij Oleša (riproposto da Carbonio Editore in una nuova raffinatissima traduzione di Daniela Liberti), non avremmo dubbi a usare il titolo di un romanzo di Platonov, Mosca felice.
Una Mosca felice non fa solo da sfondo a Invidia, ne è la conditio sine qua non. Di periodi felici la città non ne ha visti molti. Uno di questi è stata la parentesi della NEP, la Nuova Politica Economica, “il nuovo corso di riforme economiche sancito dal X congresso del Partito comunista per superare i disastrosi esiti del comunismo di guerra” (come lo descrive in nota Daniela Liberti), in vigore durante gli anni Venti del XX secolo.
La NEP introduceva nel sistema sovietico elementi di economia di mercato e permetteva alcune forme di proprietà privata. Fu smantellata da Stalin. Quando Jurij Karlovič Oleša (1899 – 1960) pubblicò Invidia era il 1927 e nei negozi della capitale era tornata l’abbondanza.
Platonov scrisse Mosca felice nemmeno dieci anni dopo, l’abbondanza non era che un ricordo, erano in vigore i piani quinquennali e infuriavano le purghe staliniste, nel cui tritacarne gli finì anche il figlio (tra l’altro Mosca felice fu pubblicato in Russia solo dopo il collasso dell’Unione sovietica). Nemmeno dieci anni prima di Invidia Mosca se la passava bene.
Rileggiamo il ritorno dal fronte dopo la rivoluzione d’ottobre del dottor Živago: il mercato di piazza Smolensk è chiuso e ingombro di immondizia, per strada chi vende «fiori artificiali, bollitori … vestiti da sera di raso nero e uniformi di dicasteri aboliti» e chi smercia «fette ruvide e già indurite del pane nero delle razioni, avanzi sudici e umidi di zucchero e mezzi pacchetti di tabacco scadente».
Quanta differenza con lo spuntino notturno di Andrej Petrovič Babičev nel primo capitolo di Invidia:
…duecentocinquanta grammi di prosciutto, una scatola di spratti del Baltico, sgombri in conserva, un grosso filone di pane, una bella mezzaluna di formaggio olandese, quattro mele, una diecina di uova e le gelatine di frutta Palline persiane.
Il tema dell’alimentazione attraversa trasversalmente tutto il romanzo. Se Mosca felice ne è sfondo e conditio sine qua non, l’alimentazione potremmo definirla il campo medio. Alimentazione intesa non come problema, ma come soluzione, cioè come Četvertak, la mensa completamente meccanizzata che prepara un pasto bilanciato e di primissima qualità e che costa al cliente solo un četvertak appunto, un quarto di rublo.
Il Četvertak è creatura del vorace Babičev, eroe della rivoluzione, uomo della nuova élite sovietica e profeta di quella che oggi chiamiamo disruptive innovation.
L’incipit del romanzo non è meno disruptive: Oleša ci presenta Babičev la mattina in bagno che canta e defeca, fa ginnastica in mutande (gli si slaccia il bottone e ne fuoriesce la peluria del pube) e si lava schizzando acqua dappertutto. La scena ce la riporta Kavalerov, l’io narrante della prima parte del romanzo, che finge di dormire sul divano.
Kavalerov, è uno sbandato, un nostalgico del passato prerivoluzionario incapace di raggiungere alcunché nella vita, a differenza di Babičev che semina lavoro e sudore e raccoglie allori e successo. Anche Kavalerov è stato raccolto da Babičev, una notte, mentre giaceva ubriaco e incosciente per strada, in fuga alcoolica dalla sua stanza angusta e dalle attenzioni morbose della vedova Prokopovič.
Babičev è generoso con Kavalerov, gli dà un tetto, lo nutre, se lo porta al lavoro (il Četvertak è quasi pronto) e Kavalerov lo ripaga con l’invidia e lo chiama salsicciaio.
Lui è un dirigente, un comunista, un edificatore del mondo nuovo. E la gloria, in questo mondo nuovo, si diffonde quando dalle mani di un salsicciaio esce una nuova qualità di salame.
Un giorno, mentre va a spasso per Mosca, Kavalerov assiste a una scena tra un ometto con bombetta e una ragazza, Valja. L’ometto cerca di convincerla ad andare via con lui, ma la ragazza, che è la figlia dell’ometto, non sente ragioni. Solo quando il padre se ne va, Valja si convince e cerca di raggiungerlo. Quando lei passa accanto a Kavalerov senza notarlo, lui ne è già innamorato.
Kavalerov viene a sapere che l’ometto è Ivan Petrovič Babičev, fratello di Andrej Petrovič, il Babičev del Četvertak, e si convince che quest’ultimo desideri Valja per sé. Quando scopre che anche Ivan cova odio contro il fratello, dentro di sé non può che divenirne sodale.
Kavalerov non è destinato a rimanere a lungo sul divano di Babičev, può occuparlo finché non torna Volodja, un giovane calciatore che Babičev ha preso sotto la sua protezione e che è andato a trovare i suoi in provincia. Kavalerov nutre rancore verso di lui ancor prima di conoscerlo e quando scopre che Volodja e Valja sono fidanzati, il suo risentimento impotente non ha più confini.
Al ritorno di Volodja, Kavalerov alza la voce, pronto difendere i sui diritti sul divano:
Ho iniziato a sperare che molto di quello che per destino mi sarebbe dovuto toccare nella mia giovinezza lo avrei riavuto indietro.
Lei mi ha fatto dono della sua beneficenza, Andrej Petrovič!
Basta solo pensare: un uomo così celebre, mi ha reso un suo intimo! Una personalità di tal fatta, mi ha accolto in casa sua. Voglio proprio esprimere quali sentimenti provo per lei!
Veramente, di sentimento ne provo uno soltanto: odio.
Io la odio, compagno Babičev.
Poi lo implora di non scacciarlo, ma finisce comunque alla porta e, pur di non accettare il tetto (e il letto) della vedova Prokopovič, va a dormire sulle panchine lungo i viali.
Questo e poco altro succede nella prima parte: Oleša non vuole sedurci con la trama.
L’inaffidabilità e l’incoerenza del narratore disorientano chi legge e spingono a scardinare ogni frase nel tentativo di ricostruire la vicenda oltre il medium ingannatore di Kavalerov. Oleša lo sa e nella seconda parte ci ripropone gli stessi eventi, questa volta non più visti dall’umorale prospettiva di Kavalerov, ma inseriti in un contesto di maggiore respiro e raccontati in terza persona. Il narratore sa molte cose, ma non è onnisciente, dà quindi l’impressione di essere in qualche modo coinvolto nella vicenda e alla fine non riesce molto più attendibile di Kavalerov.
I riflettori sono puntati su Ivan. Si raccontano la sua infanzia, il suo rapporto con il fratello, le sue invenzioni immaginarie. Anche lui, come Kavalerov, è un nostalgico del passato prerivoluzionario, un disadattato per non aver voluto o potuto trovare un posto nel nuovo mondo in costruzione, ma lo è a un livello incomparabilmente più spettacolare e visionario di quello di Kavalerov e la sua disruptive vision non è in nulla inferiore a quella del fratello.
Io apro gli occhi a una grande categoria di uomini […] Tutti coloro che voi chiamate disfattisti. I portatori di umori decadenti […] un’intera gamma di sentimenti umani mi sembra che rischi l’estinzione […] la pietà, la tenerezza, l’orgoglio, la gelosia, l’amore, in una parola quasi tutti quei sentimenti di cui era composto l’animo umano nell’epoca che va terminando. L’era del socialismo creerà al loro posto una nuova serie di stati d’animo. […] Il comunista rischia la persecuzione se è morso dalla serpe della gelosia. Ma anche un comunista misericordioso rischia le stesse cose. Il ranuncolo della compassione, la lucertola della vanità, la serpe della gelosia: tutta questa flora e fauna deve essere espulsa dalla vita dell’uomo nuovo. […] L’uomo del nuovo mondo dice ‘Il suicidio è un atto decadente’. Mentre l’uomo del vecchio mondo diceva ‘Ha dovuto farlo affinché il suo onore fosse salvo’. È così, dunque, che l’uomo nuovo abitua se stesso a disprezzare quei sentimenti antichi, cantati un tempo dai poeti e dalla stessa musa della storia. Ebbene sì. Anch’io voglio organizzare l’ultima parata di tali sentimenti.
Quella che Ivan ordisce è la congiura dei sentimenti. Ovviamente alle sue grandiose dichiarazioni programmatiche non fa seguito, né può far seguito alcuna azione.
La congiura dei sentimenti, il punto in cui Oleša rischia di più e gioca a carte scoperte con chi legge, nel romanzo è una sonora fanfaronata partorita in birreria, una millanteria bella e buona come Ofelia, la macchina che Ivan afferma di aver costruito e alla cui esistenza nessuno crede.
È capace di fare tutto, ora canta le nostre romanze, quelle sciocche romanze del vecchio secolo, e del vecchio secolo raccoglie i fiori… Si può innamorare, ingelosire, piangere e sognare… E sono stato io a fare tutto questo. Io mi sono preso gioco della divinità di questi uomini futuri: la macchina. E le ho dato il nome di una ragazza che uscì di senno per amore e per la disperazione, Ofelia.
Ivan trascina persino Kavalerov nella remota periferia di Mosca per fargliela conoscere, ma il suo sodale oltre a «glutei frusti e color del rame» da una fessura di uno steccato non vede molto altro. Il Četvertak invece è ben visibile e, nonostante i fumosi tentativi di sabotaggio da parte di Ivan durante l’inaugurazione, è un successo.
Lo scontro tra Ofelia e il Četvertak è la continuazione di quello tra i due fratelli e rappresenta il duello impari combattuto tra il vecchio e il nuovo secolo, tra quello dei sentimenti e quello delle macchine. Gli eroi negativi sono Ivan e Kavalerov e quelli positivi Babičev e Volodja.
Ivan e Kavalerov sono infelici, odiano, si rodono d’invidia e rancore, imbrogliano e poi falliscono, mentre Babičev e Volodja sono generosi, onesti, cristallini, coltivano grandi ideali, vi si dedicano con dedizione inesauribile e mietono solo successi (il Četvertak, Valja). Eppure c’è un che di disumano nella loro assenza di dubbi, nella loro capacità di prendere solo decisioni giuste e di trovarsi sempre dalla parte della ragione.
Cosa sogna Volodja?
Io voglio essere una macchina. […] Voglio diventare orgoglioso del mio lavoro, orgoglioso perché ho un lavoro. Per essere indifferente, mi capisci, verso tutto ciò che lavoro non è! Sono invidioso della macchina, questa è la verità! In cosa sono peggio di lei? Noi stessi l’abbiamo pensata, creata, e lei si è rivelata più zelante di noi. L’avvii e vedrai come va! Lavorerà senza sgarrare di un millimetro.
Kavalerov desidera Valja, se la mangia con gli occhi e ne spia le cosce tornite e abbronzate, Volodja invece prova per lei un amore castissimo, dichiara che la sposerà tra quattro anni e che la bacerà per la prima volta all’inaugurazione del Četvertak. Babičev non è da meno, è una sorta di eunuco comunista dedito solamente al lavoro, senza interessi sessuali né legami affettivi (anche se, in quello con il giovane calciatore, ci coglie il dubbio di una sfumatura omosessuale).
Sono questi i vincenti del nuovo secolo. Oleša non sta dalla loro parte, né si sforza di far provare al lettore empatia verso di loro. Babičev e Volodja sono troppo perfetti per sedurci, sembrano santini della propaganda sovietica, caricature ante litteram di tanti personaggi letterari ideologici che non hanno più spessore della pagina sulla quale vivono. Invece Kavalerov e Ivan, rampolli dell’intelligencija decaduta, per la loro meschinità e arroganza, per la loro fragilità e ipocrisia, discendono da uno dei rami più floridi della schiatta dei grandi personaggi della letteratura russa dell’Ottocento e sono nipoti di Smerdjakov e dei fratelli Golovlëv.
Da Invidia Oleša ricavò una versione scenica, La congiura dei sentimenti, che fu rappresentata nel 1930 nei teatri di Mosca e Leningrado. Ai Babičev e ai Volodja in carne e ossa della nomenklatura sovietica non piacquero la sua nostalgia del vecchio secolo e la sua critica alla disumanità del nuovo. Né fu gradita la sua difesa dell’indipendenza della letteratura di fronte al potere politico al primo congresso degli scrittori dell’Unione sovietica nel 1934. Le sue opere non furono più stampate. Come molti scrittori della sua generazione, Oleša fu ridotto al silenzio.
La riabilitazione arrivò nel 1956, con il XX congresso del Partito comunista, ma ormai era tardi. Un infarto se lo portò via qualche anno dopo.
Dopotutto, non era una Mosca felice.
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