Nella sua famiglia è tradizione che tutti gli anziani rielaborino un classico della letteratura persiana da lasciare in eredità ai propri discendenti: Kader Abdolah ha deciso di farlo con “Le mille e una notte”. Una riscrittura che si arricchisce di una nuova, ulteriore dimensione: quella del “dietro le quinte” storico, curioso e culturale in cui Abdolah è maestro.
Ancora la malia de Le mille e una notte che trascina nel suo labirinto: presi dall’Intreccio delle storie non riusciamo a smettere di leggere, di ascoltare Shehrazade che irretisce il sultano per salvarsi la vita.
E Kader Abdolah, profugo in Olanda dall’avvento di Khomeini, che ci aveva riportato il sentire magico della Persia, dell’India, dell’Arabia Felix, della Mesopotamia tra i canali e le botteghe di Amsterdam, con i suoi libri (Scrittura cuneiforme, Il viaggio delle bottiglie vuote, La casa della moschea), ritorna oggi alle origini di tutti i racconti, ‘lo cunto de li cunti’ per antonomasia: Le mille e una notte, appunto.
È forse il ciclo favoloso più famoso del mondo, un classico che da secoli seduce i lettori di Oriente e Occidente: racconti per lo più di tradizione orale, stratificati, che mescolano tradizioni persiane, arabe e indiane le cui origini si perdono nella notte dei tempi e che hanno continuato a vivere nella ripetizione popolare, finché Antoine Galland, un arabista francese del Settecento, non le tradusse, restituendo valore letterario allo sfolgorante fuoco d’artificio, gioco di incastri, rimandi e fughe che è Le mille e una notte.
Per Kader Abdolah è “quel libro maestoso che è sempre stato sulla mensola del camino” della casa paterna, che lo ha accompagnato per tutta la vita. E ripensando ai suoi romanzi lo sentiamo eccome. Strano non esercente accorti prima con tanta chiarezza.
Seguendo una tradizione di famiglia per cui ogni membro anziano riscrive un vecchio testo per i discendenti, ma rivolgendosi a noi europei, Kader Abdolah ci racconta le sue Mille e una notte, in una versione moderna che conserva tutta l’atmosfera fiabesca e il fascino sensuale della fonte originaria: lo pubblica Iperborea, con la traduzione di Claudia Cozzi ed Elisabetta Svaluto Moreolo.
Notte dopo notte, per avere salva la vita, la bella Sherazade ammalia il sultano sanguinario con un fiume di racconti nei racconti , senza mai finire la storia: così il desiderio del sultano di ascoltare e di possedere la sfuggente narratrice si rinnova ogni notte, e la successiva sarà ancora di più, e ancora, ancora.
Nel labirinto incantato di mercanti e schiavi, di califfi e visir, di città immaginarie e vere, come Baghdad, Bassora, Il Cairo, Delhi, di principesse, di jinn, di incantesimi e metamorfosi, Shehrazade mette in scena il potere, l’inganno, la compassione, la vendetta, la stupidità, e soprattutto il destino, inshallah.
All’interno del flusso, dello zigzagare del racconto, Kader Abdolah aggiunge piccole spiegazioni su questo e su quello, interrompendo e riprendendo la narrazione, per raccontarci ciò che sta dietro le quinte: le complesse origini dell’opera e della sua protagonista, le modifiche che ha subito attraverso i secoli e le culture, i personaggi storici che sono presenti e che sono spesso ingiustamente esaltati (come il feroce califfo Harum al-Rashid) e infine, forse la più sorprendente di tutte, la libertà, l’intelligenza, la sensualità delle donne in un mondo apparentemente patriarcale.
Il racconto si piega, vola via e noi con lui, senza riuscire a fermare la delizia della sorpresa e la voglia di sentire come andrà a finire, per non finire mai.