In più di quattromila pagine, divise in sei volumi, Karl Ove Knausgard ripercorre la propria autobiografia fino alla parola Fine: tra ricostruzione e decostruzione, lo scrittore norvegese ricrea il proprio mondo, gli affetti, le sconfitte, l’adolescenza, le paure più profonde. Un’indagine spietata, coraggiosa, temeraria sull’essere umani e sulla vicinanza del male.
Nino Frassica, in uno sketch radiofonico, ipotizzava l’esistenza di un mappamondo in scala 1:1 della Terra. Borges, forse meno grandiosamente, nel frammento “Del rigore della scienza” raccontava di una Mappa dell’Impero “che eguagliava in grandezza l’Impero stesso e coincideva puntualmente con esso“. Entrambi i casi hanno in comune l’assurdità dell’idea di poter ridurre la realtà a una sua rappresentazione: la mappa non è il territorio.
E se, invece, lo fosse?
Da questo progetto immane si sviluppa l’autobiografia in sei volumi di Karl Ove Knausgard, La mia lotta.
Fin dall’ uscita del primo volume, La morte del padre, nel 2008, per Feltrinelli, il romanzo di Knausgard ha destato fortissime proteste per il modo in cui porta alla ribalta gli eventi più privati della sua vita, dal divorzio con la prima moglie alla morte del padre, dall’alcolismo – suo e del padre – alla sua infelicità coniugale. Il tutto utilizzando i nomi delle persone coinvolte e a lui più vicine, in quello che è stato più volte additato come un vergognoso tentativo di lucrare sulla vita degli altri. D’altronde, un intero volume, quello finale, è dedicato proprio alle conseguenze della pubblicazione del romanzo.
La mia lotta è composto da sei volumi, usciti in Norvegia fra il 2008 e il 2011, mentre qua in Italia, dopo una prima pubblicazione delle due parti iniziali da Ponte alle Grazie nel 2010, è stato edito interamente da Feltrinelli a partire dal 2014, e si è concluso nei primi mesi del 2020.
Nonostante siano volumi in parte indipendenti, una vera e propria discussione può essere intavolata soltanto ora che l’intero lavoro dello scrittore è stato pubblicato integralmente, poiché, pur nella sua divisione, il romanzo di Knausgard è un unico grande racconto, e solo nel suo sguardo d’insieme acquista significato e forma – d’altronde, lo stesso Knausgard si interroga su come dovrà essere recensito, se volume per volume o nella sua interezza.
Il primo volume si concentra sulla morte del padre e i giorni che la seguirono; il secondo, attraverso una narrazione a ritroso e concentrica, racconta l’amore di Knausgard per la sua seconda moglie, Linda, in tutti i suoi alti e bassi; terzo, quarto e quinto volume sono i tre volumi più classicamente autobiografici e vanno dall’infanzia all’età adulta di Knausgard, quando si afferma come scrittore.
Il sesto e ultimo, Fine, mostra le conseguenze della pubblicazione dei primi volumi, in particolare la rottura con il fratello del padre e il crollo psichiatrico di Linda, dovuto anche alla lettura dei suoi romanzi.
Al centro del volume, un saggio di più di cinquecento pagine sul nazismo e il Mein Kampf.
Dopo questa velocissima panoramica, è facilmente intuibile che sorgono spontanee due domande: uno, cosa ce ne importa del racconto della vita così ordinaria di uno scrittore norvegese nemmeno troppo conosciuto, tanto da sopportarne la descrizione estremamente dettagliata per più di quattromila pagine? E, due: cosa c’entra il nazismo ora?
ANATOMIA DI UNA VITA
La prima parte del primo volume serve a Knausgard come prova stilistica e strutturale per tutto il racconto successivo. In essa, infatti, Knausgard racconta per qualche centinaio di pagine, la notte di capodanno dei suoi sedici anni. È una notte dove non succede nulla di speciale: si organizza con un suo amico per ubriacarsi un po’ e poi cercare di aggregarsi a un’altra compagnia di ragazzi. Ciò che notiamo subito è che, innanzitutto, il racconto procede spesso per divagazioni, perché per spiegare un episodio è necessario, magari, raccontare di quell’altra volta in cui è successo che. Ma soprattutto colpisce l’estremo dettaglio in cui scende Knausgard quando racconta di quel capodanno. È tutto così nitido che non si tratta più di ricordo. Il che è importante perché diverse volte Knausgard stesso ci dice quanto la sua memoria sia pessima: non ricorda quasi nulla di ciò che sia stato detto anche poco prima. È proprio questo scarto fra ciò che è reale e ciò che è probabile, fra ciò che è ricordato e ciò che è ricostruito, che rende La mia lotta qualcosa in più di un libro di ricordi. È una ricostruzione letteraria. Ovvero, Knausgard soltanto in parte sta ricordando, ma sta soprattutto ricreando.
Quando Knausgard descrive minuziosamente la sua vita, attraverso discorsi probabili, taglia e cuci di episodi, cercando di togliere qualsiasi distanza temporale dal ricordo facendolo divenire vissuto, è – come dice lui stesso nel sesto volume – come se descrivesse un ciuccio per bambini in tutte le sue componenti e le sue forme, affinché lo sguardo che si posa su di esso possa essere un nuovo sguardo, o, meglio, uno sguardo privo dell’ovvietà che ci impedisce di vederlo veramente. Quindi la sua descrizione della vita, di una vita fondamentalmente ordinaria e universale, vuole servire proprio a questo: permettere all’altro di vedere la vita senza la sua patina d’ovvietà che il tempo costruisce inesorabilmente, perché, come viene ripetuto più volte nel corso dell’opera, man mano che l’individuo cresce e conosce maggiormente il mondo, esso si restringe e perde il suo significato.
Affinché lo sguardo del lettore possa vedere realmente è, ovviamente, necessario che ci si possa rispecchiare nella vita di Knausgard, altrimenti quella che vedremmo con altri occhi sarebbe soltanto la sua di vita. Paradossalmente, è proprio perché Knausgard la descrive così dettagliatamente che la sua vita può divenire universale.
Sempre utilizzando un’immagine che è lui stesso a fornirci nel corso dell’opera, quando Leonardo Da Vinci iniziò a dissezionare i cadaveri e a studiare i dettagli degli organi, nella loro unicità individuale, fu possibile iniziare a trarre delle regole universali per ogni corpo. Così per Knausgard: seppur le sue esperienze individuali siano uniche e irripetibili, ritroviamo come famigliari e universali le sensazioni e le emozioni che ci vengono mostrate dalla sua descrizione così empatica e dettagliata: il senso di disagio dell’adolescenza, la paura di non essere adatti, la gioia e la scoperta dell’infanzia, l’amore, e così via. Per riprendere il giro di prova iniziale del Capodanno, l’emozione che lascia nel lettore è il ricordo dei tentativi disperati che si facevano da ragazzi per avere un’esperienza significativa e fondamentale, quando sembrava che ogni Capodanno dovesse essere il culmine di un intero anno, se non di un’intera vita, la paura che quel momento andasse sprecato, il terrore di essere rifiutati e l’imbarazzo di sentirsi messi completamente a nudo. E queste sono sensazioni universali, e sono ciò a cui mira la scrittura, profondamente emotiva, di Knausgard.
MEIN KAMPF
Dietro quindi il racconto della vita di uno scrittore più o meno emergente in un paese ai confini del mondo, vi è il racconto universale di ciò che vuol dire essere umani. La biologia, la fisicità dell’uomo, con tutte le sue pulsioni, dal desiderio alla paura, sono ciò che interessano Knausgard. La lotta a cui fa riferimento il titolo è proprio quella che vive ogni essere umano.
I due poli in cui si trova costantemente in bilico sono l’io e il noi sociale.
L’io, unico e universale, è legato alla biologia e alla fisicità, alle pulsioni del desiderio e della paura. È il meccanismo che Knausgard descrive quando racconta che vorrebbe soltanto ubriacarsi e fare sesso, fuggire dagli obblighi della famiglia e chiudersi in se stesso. Ma è anche il cuore, organo fondamentale per Knausgard, di una sincerità e ingenuità disarmante e commovente quando afferma che “il cuore mai, mai, mai, sbaglia“.
Se l’io è interno, l’altro polo della lotta, il noi sociale, è esterno. In diversi momenti, Knausgard si scaglia contro la società svedese – lui che, norvegese, si è trasferito in Svezia – e la costante omologazione della globalizzazione, colpevole di spingere verso un appiattimento delle specificità dell’individuo. È proprio su questo versante che si inserisce il saggio di quasi cinquecento pagine sul nazismo.
È impossibile, infatti, comprendere l’importanza di questo saggio all’interno del racconto, se non lo si contestualizza nella lotta dell’individuo. Lungi, infatti, dall’essere un corpo estraneo nel romanzo di Knausgard, pur nel suo essere estenuante, il saggio, intitolato “Il nome e il numero”, cristallizza ed esplicita l’altro polo della battaglia dell’individuo:
Il passaggio dal singolo individuo all’individuo nella moltitudine equivale a quello dell’io al noi, ma non il noi personale, questo sconfina in un noi diverso, molto più grande, che è impersonale, non è più rappresentato da un nome, ma da un numero, e in quanto tale si avvicina a un esso.
Non a caso, questo saggio si trova al centro del sesto volume, dedicato alle conseguenze sociali del romanzo di Knausgard, colpevole di aver reso pubblico il privato.
Non vorrei essere frainteso, Knausgard non paragona assolutamente nazismo e globalizzazione, sarebbe come paragonare un’esplosione termonucleare a un cerino, e soprattutto mostrerebbe una totale mancanza di rispetto verso l’orrore che fu la Shoah, e che Knausgard è sempre costantemente attentissimo a mantenere.
Tutto “Il nome e il numero” è una riflessione su come sia potuto accadere l’Olocausto. Su come, cioè, un intero popolo abbia potuto compiere una simile atrocità. Knausgard dedica un’attenzione enorme all’analisi del Mein Kampf di Hitler e alla sua biografia per mostrare come il Nazismo e l’Olocausto non siano state tragedie inevitabili, cadute dal cielo, o comunque conseguenze necessarie nel loro orrore di tutto ciò che era accaduto prima. Tutt’altro. Knausgard ci mostra un Hitler umanissimo, lontano dall’essere la malvagità fatta persona, come vorrebbero alcune biografie: se fosse stato la malvagità fatta persona, in fondo, sarebbe togliergli ogni responsabilità per le sue azioni. Ogni svolta, ogni azione compiuta che portò all’Olocausto fu una scelta presa volontariamente da delle persone e degli uomini, non meno uomini di tutti noi.
È proprio questo ciò che terrorizza maggiormente Knausgard: la vicinanza umana dei nazisti. Perché sarebbe molto più rassicurante pensarli, immaginarli, come esseri mostruosi, concentrato di malvagità e perversità, esseri umani a cui manca qualcosa per essere veramente umani. Sarebbe molto più rassicurante e pericoloso.
Knausgard, nella sua analisi del nazismo, che passa dalle poesie di Celan al capro espiatorio di Renè Girard, giunge alla conclusione che esso sia stato possibile non solo perché ha reso gli ebrei qualcosa meno che persone agli occhi del popolo tedesco, ma anche perché è riuscito a far scomparire l’io individuale del popolo tedesco stesso all’interno di un noi sociale sconfinato, che ha ribaltato etica e morale, facendo sì che l’individuo percepisse come morale uccidere e immorale non uccidere. E c’è una domanda che aleggia per tutte le cinquecento pagine del saggio e che chi legge vorrebbe, in fondo, non porsi: se fossi vissuto durante il nazismo, sarei stato veramente in grado di oppormi a quello che era il diktat sociale nazista? La risposta è, ovviamente, sì, certamente. Ma poi, non possiamo fare a meno di chiederci ne siamo sinceramente convinti,
L’individuo per Knausgard è costantemente in bilico fra le costrizioni del noi sociale – che, comunque, con le sue regole è fondamentale per il mantenimento di una società civile – e le pulsioni animalesche e biologiche dell’Io. Questa perenne lotta, questo impossibile punto di equilibrio, è ciò che per Knausgard è la vita.
LA MAPPA E IL TERRITORIO
Torniamo al mappamondo e alla Terra e alla domanda se sia possibile ridurre la vita alla sua rappresentazione. Knausgard, con il suo immane progetto, è riuscito a far coincidere racconto e vita? È riuscito nella titanica impresa di raggiungere il nocciolo dell’essere umano? Knausgard per questo suo obiettivo è stato disposto consapevolmente a sacrificare moltissimo e a ferire tutti quelli che lo circondavano e che lo amavano. Ma alla fine mappa e territorio coincidono? È Knausgard stesso a tirare le somme, alla fine del romanzo:
La storia dell’estate appena passata, che ho appena raccontato, sembra completamente diversa, lo so, da come era. Perché? Perché Linda è un essere umano e la sua essenza unica è qualcosa che non si lascia descrivere, la sua presenza così distinta e peculiare […]. Non si trattava di ciò che faceva, non risiedeva in ciò che diceva, ma in ciò che lei era.
La mappa non può mai coincidere con il territorio, non tanto perché sarebbe impossibile farle coincidere con le loro scale di grandezza (quello, come ha dimostrato Knausgard, con la giusta dose di insensibilità e disperazione, sarebbe possibile), quanto più perché la mappa è sempre e solo uno sguardo sul territorio, quindi inevitabilmente parziale e soggettivo. La vita è indescrivibile, ciò che può essere descritto è il nostro sguardo su di essa. Ed è questa che ci consegna Knausgard nella sua lunghissima opera: lo sguardo sulla sua vita, la mappa della sua vita, che, forse, potremo usare anche nella nostra.