Kassandra, il corpo è la voce della rivolta

In Teatro

Foto di Serena Serrani ©

Al Teatro Fontana fino a domenica, una straordinaria Roberta Lidia De Stefano, cantante, musicista, intensa performer a tutto tondo, è una Cassandra contemporanea che dall’angolo di sguardo degli ultimi racconta, nel testo di Sergio Blanco per la regia di Maria Vittoria Bellingeri, il presente dei “disobbedienti alle leggi del branco”

Chi può essere oggi, Cassandra? Principessa, profetessa condannata a non essere creduta dal suo stesso essere oggetto – e soprattutto e prima ancora soggetto – di desiderio? La lingua che le è stata negata sarebbe oggi una lingua di tutti, non immediata forse ma a tutti accessibile a patto di avere intenzione di comprenderla, e di quel corpo rivendicato, conteso e voluto, oggi farebbe strumento di mestiere.

Almeno, questa è la risposta che si dà Sergio Blanco, drammaturgo franco-uruguaiano che, dandole il corpo di Roberta Lidia De Stefano, la trasforma in Kassandra,  che possiede solo una macchina, una tastiera che suona e distorce sempre dal vivo, e il suo corpo, e si una storia da raccontare in un inglese essenziale che è l’esperanto dei nostri tempi, punteggiato di italiano per vezzo e di una inevitabile cadenza slava. Una storia, quella della figlia di Priamo re di Troia, ricostruita con rigore filologico che si spinge fino al recupero, in scena, del greco dei tragediografi a cui si deve la nascita del teatro. E che tuttavia ne hanno voluto espungere delle porzioni di verità, negando a lei personalmente il diritto di dirsi, e di rivendicarsi.

Oggi, in un buio contemporaneo fatto di lamiere e luci stroboscopiche, Cassandra quella storia ha bisogno di evocarla, e di svolgerla, per chiunque sia disposto ad ascoltarla e, riavvolgendola, a riconoscere in lei l’ascendente di tutti i respinti della storia, gli ambigui in cerca di una propria appartenenza che abbracci, invece che rifiutarle, tutte le molteplicità, a cominciare da quelle dei generi, tenuti insieme in un corpo che non è nè uomo nè donna, che rompe le regole e le categorie, rifiutando – dall’amore per il fratello al pensiero sulla guerra, brutale e inutile come in ogni tempo – quello che il mondo ha stabilito come confine tra giusto e sbagliato.

E rompendo, anche, tutto quello che la tragedia – classica e contemporanea – perché la sua vita, ci tiene a precisarlo dopo che la sua ironia puntuta e schietta ha evocato la risata – ci ha fatto credere di sapere di lei. Non è una donna perduta, schiacciata da un potere troppo grande per essere sostenuto come la capacità di leggere il futuro. Quella stretta nel latex nero che si muove in scena guidata dalla regia di Maria Vittoria Bellingeri è una donna di assoluta vitalità, anche quando è venata di disperazione.

Il presente del consumismo, anche dei corpi, come delle biografie, ha relegato a questa donna la capacità divinatoria a un presente senza scampo, cui non c’è alternativa ad andare incontro, anche per chi ne conosce gli esiti ferali, anche quando hanno la forma di un maschile, di un cliente, violento e possessivo, a tutta velocità. Il mito, oggi, si è paradossalmente fatto più estremo, brilla di luci stroboscopiche e batte al ritmo di bassi pulsanti, è dissacrante e surreale, estremo nella misura in cui pretende un estremo grado di empatia, di ascolto, di riconoscimento della donna dietro l’archetipo.

A rendere possibile questa riscrittura visionaria e surreale, sottolineata dalla regia di Belingeri che la trasforma in una sagace sorta di rave party, è una ispiratissima Roberta Lidia De Stefano, che a Cassandra vota integralmente il proprio corpo, i centimetri di pelle non nascosti ma soprattutto il proprio poliedrico talento. Cassandra si trasforma, grazie a lei, in una performer istrionica e completa, che sa trarre dal suo corpo una voce viscerale da blueswoman nera, la rabbia di ogni donna e la musica di un presente elettronico che scompone i suoni.

Sul palcoscenico tagliato da lame di luce prende vita una donna intensa e sarcastica, che per appagare la sua urgenza di ritrovare la voce che le tradizione le ha tolto avvince e disorienta, snudando una certa segreta dolcezza che non diviene però sottomissione nemmeno quando lo appare – e forse lo è, agli uomini e alla sorte che le ha portato via la sua, di radice, quel padre e quel fratello amatissimi e rievocati in una follia bambina pop e senza filtri, che schizza rapida in ricordi nutriti di Bugs Bunny e degli ABBA. Perchè forse è vero. Il vincitore – della guerra, come della storia – si prende tutto, dal corpo delle donne alla loro capacità di vedere prima il mondo. Ma è nello spazio della scelta di farsi artefici del proprio destino, qualsiasi esso sia, che ritornano vive le profetesse di ogni tempo.

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