Il nuovo album di Keith Jarret esce in un momento drammatico per il grande pianista, il quale rende noto ciò che già si sospettava. E cioè che a seguito di un ictus ha perso l’uso della mano sinistra. Un live prezioso, che testimonia la genialità di uno dei protagonisti più liberi della musica contemporanea
“Il meglio che mi aspetto di recuperare dalla mia mano sinistra è reggere una tazza”. Un dolore per chiunque. Un dramma per un pianista. Un trauma se sei Keith Jarrett.
Dopo due anni di silenzio, di riapparizioni attese, di concerti non suonati, Jarrett ha svelato al New York Times quel che purtroppo sapevamo e non si osava dire: il suo corpo, offeso da due ictus, è dimezzato. La parte sinistra non risponde più. Quella simbiosi con lo strumento che lo rendeva unico si è spezzata. Il pianoforte di Jarrett tace, anche in privato. La grande e attrezzatissima sala da musica nella casa immersa nella natura del New Jersey dicono sia rimasta silenziosa dal maggio del 2018, data del secondo incidente. I tentativi di riprendere a suonare sono stati timidi e demoralizzanti: qualche contrappunto con la destra, “cercando di pretendere d’essere Bach con una mano sola – scherza amaro nell’intervista del 21 ottobre con Nate Chinen -, ma era solo giocare con qualcosa”.
Prospettive? “Non so che cosa il futuro abbia in serbo per me. Al momento non mi sento un pianista”. E “non si tratta di una cosa da shoot the piano player (sparate sul pianista) – scherza –. Io sono già stato shot”.
Di qua e di là dell’Atlantico
La musica che trapassa calendari e geografie, stili e linguaggi, si deve misurare con l’assenza di uno dei protagonisti più liberi e geniali della contemporaneità. Jarrett ha iniziato a suonare da professionista nei Jazz Messengers di Art Blakey, a nemmeno vent’anni, poi nel gruppo di Charles Lloyd, prima di pubblicare l’album del debutto da “titolare”, Life Between The Exit Signs (1967). Ha attraversato quasi tutta la musica che ci possa venire in mente: bebop, post-bebop, la svolta elettro-ritmica di Miles Davis (Bitches Brew, Live at Fillmore), blues, free jazz, innodia gospel. Come interprete si è confrontato con Bach e Handel (Clavicembalo ben temperato, Suites per tastiera), con Mozart (Concerti per pianoforte e orchestra), con il Novecento storico (Bela Bartók, Dmitri Šostakovic), con la musica colta americana (Samuel Barber, Lou Harrison), con la tonalità meditativa di Gurdjeff e l’introspezione “mistica” di Arvo Pārt.
Jarrett ha creato due gruppi che si sono fronteggiati dalle due sponde dell’Atlantico: a) quello fondato nel 1971 in America con i sax di Dewey Redman, il contrabbasso di Charlie Haden e la batteria di Paul Motian; b) quello creato, alla fine dei Settanta, sulle acque del Nord Europa con Jan Garbarek, Palle Danielsson e Jon Christensen, sotto gli occhi attenti di Manfred Eicher e fra le braccia della Ecm, ch’è un pensiero del far musica più che una casa discografica.
Al centro di tutto si è aperto e poi dilatato un mondo a sé che ha nome Jarrett, solo Jarrett: la via solitaria al pianoforte che faceva di ogni concerto un salto nel buio, un atto di composizione istantanea generato da un flusso della memoria e dell’immaginazione.
Un nuovo album? Sì, Budapest
Se tutto Keith Jarrett, come temiamo, è ormai suonato e registrato, finiamola con gli “ancora?” e “un altro?” che scattavano come tic nervosi a ogni album dal vivo. La lunga serie dei Solo Concerts che la Ecm ha sfoderato negli anni, dopo il Facing You in studio del 1971, che aprì il filone, e dopo la leggenda del Köln Concert che lo santificò nel 1975, dobbiamo solo ringraziare che sia lunghissima. Non è più di troppo nessun pezzo dell’archivio che ha scandito la musica interdisciplinare di cinquant’anni e la vita di quasi quattro generazioni, ora che Jarrett è costretto al silenzio.
E merita rispetto, anzi amore, quel che si è aggiunto da pochi giorni: il Budapest Concert che fotografa la serata del 3 luglio 2016 nella Sala Bela Bartók della capitale d’Ungheria. Un pezzo pregiato sul quale Jarrett non ha dubbi: per lui è “The Gold Standard”, la perla del tour europeo 2016, il frutto di una di quelle alchimie che “riconosci solo quando ci sei dentro”.
Non c’è niente di estremo o di rivoluzionario, jarrettianamente parlando, in quel concerto. Rispetto agli archi lunghi delle improvvisazioni del passato, il Budapest Concert è un esercizio di sintesi in dodici episodi (più due bis) che Jarrett chiama Parti. La più lunga, la prima, dura quattordici minuti; le altre stanno fra i quattro e gli otto.
La Parte I è un po’ la Sinfonia avanti l’opera di quel che verrà: da una cascata informale di scale e arpeggi, quasi l’alibi meccanico dell’ansia da “pagina bianca”, si scivola per gradi in un rallentando che lascia affiorare un ritmo ostinato, eco di blues. Nel post-serialismo europeo s’insinua la corporeità afroamericana. La sequenza delle altre undici Parti è un’alternanza ben calibrata di densità e rarefazioni, cambi di colore e tonalità, pieni e vuoti, lentezze e velocità, melodia e ritmo. E, appunto, di Occidente a Afroamerica.
La Part II è rintocchi di accordi lasciati risuonare. La Part III illumina i colori con insistenza sulle ottave alte. La Part IV appoggia sincopata su un tema che si scontorna come un bassorilievo in legno lavorato a punta. La Part VI ritorna all’informale veloce e astratto. La Part VII è il coraggio della ricerca della melodia. La Part VIII è un’altra via al melodizzare per vie interne. La Part IX è un’altra scorribanda velocissima nell’informale. La Part X è un vero ricercare alla maniera antica ma con doppi rintocchi della mano sinistra che insistono dall’inizio alla fine, un po’ alla Dollar Brand prima maniera. La Part XI è un finale evanescente, fatto apposta per preparare i tre pezzi finali in forma di song, dei quali due bis: It’s a Lonesome Old Town – visione di lockdown prossimi venturi? – e Answer Me, My Love, toccante.
Due i pezzi da doppia stella Michelin: il Blues (Part XII), che fa battere il piede e scaccia ogni tristezza da Covid 19, e la Part V, ch’è ballata, nostalgia, ricerca della melodia, il pianoforte com’è e come sempre sarà se non si ha vergogna della tonalità e della melodia. Insomma Keith Jarrett allo stato puro.
Per rami di famiglia, Jarrett ha origini centroeuropee, tedesche e ungheresi per via di madre, pianista. Bartók è maestro di Microcosmi, di forme brevi, di musica in cui il tempo pulsa nervoso, come nel terzo Concerto per pianoforte e orchestra che Jarrett ha suonato e registrato. Bartók fu anche maestro di ricerca vera, sincera, delle tradizioni popolari che registrava dalle voci dei contadini con i primi marchingegni a cera, lungo le dorsali del Caucaso fino ai confini del Medio Oriente. Nella capitale dell’Ungheria, Jarrett sente di aver toccato il punto più alto del suo ultimo tour mondiale, prima del doppio knock out. C’è qualcosa di simbolico in tutto questo?
Coincidenze, passione, politica
Se a Jarrett dal vivo dobbiamo dire addio, diciamo anche basta al fastidio perbenista per i concerti interrotti, sospesi, un po’ alla Benedetti Michelangeli, quando tossi, rumori e svagatezze rischiavano di far evaporare la concentrazione. Era nevrosi da star? Quando un artista avverte che alcuni, tanti, troppi, non sono lì per capire e ascoltare, per cogliere l’alchimia di un far musica rischiando ogni volta il grado zero, può isolarsi o incazzarsi. Jarrett non riusciva a evitare la seconda via. Egoismo? Il contrario: coinvolgimento, partecipazione, passione. Che in alcuni casi era anche civile, perfino politica.
Una sera del 1973, Maurizio Pollini, fece saltare i nervi al pubblico della Società del Quartetto di Milano iniziando a leggere, prima di suonare, un “comunicato” contro la guerra in Vietnam. Gli chiusero il coperchio dello Steinway sulle mani e arrivarono i carabinieri.
Il Concerto del 2017 alla Carnegie Hall, l’ultimo prima del suo personale lockdown, Jarrett lo aprì con un lungo speach “indignato” per la situazione politica aperta dall’elezione di un presidente americano “divisivo” (parola del New York Times) che giusto oggi è deciso a farsi rieleggere.
Casualità? Scriveva Schiller: “Coincidenze per effetto del caso sono prove di assoluta evidenza, per chi ha una luce nel cuore”.
La foto di copertina è di © Daniela Yohannes / Ecm Records