Kent Haruf riempie le pagine di deserti vuoti e di una cittadina in particolare: Holt. È lì che ambienta la sua Trilogia della Pianura. Una ‘loose trilogy’ come la definisce egli stesso: una trilogia sciolta, slegata, senza inizio né fine.
“Voglio pensare di aver scritto quanto più vicino all’osso che potevo. Con questo intendo dire che ho cercato di scavare fino alla fondamentale, irriducibile struttura della vita, e delle nostre vite in relazione a quelle degli altri”
Si racconta così timidamente, Kent Haruf, nella sua ultima intervista sul The Denver Post. Ultima perché è venuto a mancare pochi giorni dopo, il 30 novembre 2014, per interstiziopatia polmonare. La sua carriera, come la sua esistenza, è stata spesso legata alla strenua difesa dell’intimità personale.
Quello che sappiamo è che era il figlio di un pastore metodista di Pueblo, Colorado, posto che occupa uno spazio enorme nella sua scrittura. Sappiamo che ha lavorato come carpentiere, come impiegato, come infermiere in un ospedale, e poi in un centro di igiene mentale come bibliotecario. Si è laureato in Nebraska e ha conseguito un Mfa all’Iowa Writers Workshop.
Riempie le pagine di deserti vuoti e di una cittadina in particolare: Holt. È lì che ambienta la sua Trilogia della Pianura. Una ‘loose trilogy’ come la definisce egli stesso: una trilogia sciolta, slegata, senza inizio né fine. Perché per quanto l’ambientazione sia la stessa, personaggi e situazioni cambiano di volta in volta e i rimandi all’uno o all’altro somigliano a esili ricordi sbiaditi nel tempo. Proprio per questo motivo i ragazzi di NNEditore, piccola casa editrice milanese, hanno deciso di iniziare la pubblicazione (con la traduzione di Fabio Cremonesi) dall’ultimo in ordine di uscita, Benedizione, e di proseguire poi con Canto della pianura (uscito a novembre) e Crepuscolo (previsto per giugno 2016). Ad essi si aggiunge Our Souls at Night, uscito postumo in America, previsto per novembre 2016 e che, per quanto sia ambientato sempre nella cittadina di Holt, viene considerato dall’autore stesso un romanzo a se stante.
Kent Haruf scava nella vita delle persone che abitano quel posto e lo fa con un’onestà e una semplicità talmente spiazzanti da non lasciar alcun dubbio sulla veridicità dei fatti e sull’umanità degli stessi. Con una scrittura scarna e netta, refrattaria a qualsiasi abbellimento, essenziale ma percorsa dall’inquietudine dell’esistenza. Perché le storie che racconta sono tante e allo stesso tempo una sola, unica e rara. Sono romanzi corali, in cui le voci dei personaggi si accompagnano l’una all’altra, sovrapponendosi a volte, ma senza mai stonare. C’è tutta un’unica vita, spezzettata in una decina di loro, e tenuta assieme dalla costante geografica: uno spazio che si estende tra il deserto e Denver, tra l’inverno del passato e l’afosa estate del presente. Sono storie brutali e crudelmente umane, capaci di farsi comprendere immediatamente.
Ogni individuo è posto faccia a faccia con la propria vita e costretto a metterla sotto giudizio. Come Dad Lewis, che apre Benedizione scoprendo d’essere un malato terminale con ancora un mese di vita e attorno alla cui figura ruotano quelle della moglie e della figlia, Mary e Lorraine, e dell’anziana Bertha May, vicina di casa, che ha preso con sé la nipotina Alice, rimasta orfana. E poi la signora Willa e la figlia Alene, adulte e sole, che si stringono attorno alla piccola, cercando di trarne la vita, e il Reverendo Lyle, con sua moglie e suo figlio, tacciato di predicare pensieri poco ortodossi. Fili intrecciati che si incontrano in più punti e a cui viene offerta la possibilità di redimersi attraverso opere di bene. Anche al signor Lewis, che tenta di recuperare il rapporto con il figlio, fuggito di casa perché omosessuale. Ed è proprio lì che nasce il valore di tutto, dal fare bene al di là di ogni cosa.
Un romanzo di morte e perdono a cui si contrappone il secondo libro della trilogia, ma non il seguito. Canto della pianura è infatti un inno alla vita nell’immagine più ampia e libera che il pensiero sia in grado di concepire. Una preghiera recitata sottovoce da Ike e Bobby, che scoprono il sesso nascosti dietro ad una finestra; da Victoria Roubideaux, rimasta incinta sul sedile posteriore di un auto che odorava di carburante e di campagna l’estate prima di diplomarsi, dai fratelli McPheron, uomini di mezza età cresciuti da soli ad allevar bestiame che l’accolgono in casa come una figlia, e da Guthrie, Maggie Jones e tutti gli altri personaggi che a mano a mano si uniscono alla litania, a questo ‘canto piano’. Kent Haruf infatti non dà parola ai terremoti e ai disastri ma al muoversi lento del vento lungo la pianura, allo scorrere del fiume laggiù, ad Holt, luogo da cui nessuno parte per davvero.
Una semplicità minimale capace di creare un forte legame tra personaggi, storia e lettore, e di farci vivere lì, insieme a loro, dietro la finestra di una casa all’angolo di Main Street. Guardando la pioggia estiva, furiosa, cadere inesorabile e scrosciare sui tetti e sulle strade, sperando che non finisca subito mentre poi cessa, di colpo. Rara, così com’è iniziata.
Immagine Sunset in Colorado by Glenn Pope
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