All’Hangar Bicocca, cinque tele di Kiefer fanno ora compagnia ai Palazzi Celesti. Il nuovo allestimento riaccende i riflettori su uno dei luoghi più affascinanti di Milano
Giovedì 24 settembre, all’Hangar, Anselm Kiefer – intervistato da Germano Celant – ha presentato le nuove cinque maestose tele che affiancheranno per i prossimi anni I Sette Palazzi Celesti, montati nel 2004 all’interno del centro per l’arte contemporanea sostenuto da Pirelli.
L’artista tedesco nasce nel 1945 a Donaueschingen, nella Germania sud-occidentale: una data e un luogo “parlanti”, capaci di orientare le ricerche e le scelte del giovane Kiefer, cresciuto tra i cumuli di rovine lasciate dal conflitto mondiale. Studia giurisprudenza, lingue e letterature romanze, poi, a Friburgo, pittura. Nel 1972 conosce Joseph Beuys: di nuovo fantasmi di guerra e macerie, e una coscienza che freme di fronte a un mondo che cambia, rimuove e dimentica rapidamente. Sulle orme di Beuys è subito scandalo. Sono gli anni delle Besetzungen, cioè occupazioni, azioni artistiche tanto semplici quanto efficaci, travisabili e strumentalizzabili: Kiefer si mette in posa con il braccio teso nel saluto nazista in alcuni luoghi-simbolo delle due Germanie. La stessa stratificazione di significati, la stessa ricerca degli esordi – riflessione critica sul periodo nazista in testa – sono imprigionate nella materia pittorica dei dipinti che lo porteranno al successo e alla ribalta internazionale, fino alla consacrazione definitiva tra i più importanti artisti contemporanei.
Esattamente undici anni fa, nel 2004, l’Hangar appena inaugurato presentava grazie a Lia Rumma sette monumentali cataste di cemento armato, 90 tonnellate di peso e altezze comprese tra i 14 e i 18 metri: I Sette Palazzi Celesti (Sefiroth, Melancholia, Ararat, Linee di Campo Magnetico, JH, WH, Torre dei Quadri Cadenti), ispirati agli edifici descritti nel Terzo libro di Enoch, o Libro dei Palazzi, il Sepher Hekhalot della tradizione ebraica: vi si narra la storia di Enoch, patriarca bisnonno di Noè, che nel suo trecentosessantacinquesimo anno di età salì, ancora vivo, come il profeta Elia, al cielo.
Proprio come quelli di Enoch, i palazzi di Kiefer si stagliano al di là del tempo e dello spazio, in uno scenario popolato dalla polvere, dai rottami e dalle rovine del passato. Ogni edificio, nella sua immanità precaria, rappresenta una delle porte per accedere al cospetto di Dio, in un percorso di redenzione oltre l’umano. I richiami alla Cabala e alla tradizione ebraica sono fusi con riferimenti alla cultura europea – germanica in primis – in uno scenario post-atomico che sembra non contemplare la vita.
Al cospetto dei Palazzi, nella navata dell’Hangar, sono state collocate da pochi giorni cinque tele inedite, realizzate dall’artista tra il 2009 e il 2013 (Jaipur, due della serie Cette obscure clarté qui tombe des étoiles, Alchemie, Die deutsche Heilslinie): il riallestimento pensato da Vicente Todolì ne stimola il dialogo serrato, suggestivo, sia fisico che contenutistico con le torri.
L’osservatore è coinvolto in uno spettacolo sublime – nel senso romantico del termine – in cui la polvere che si solleva dal pavimento, i cumuli di cemento, il riflesso sui vetri rotti, il piombo, il ferro, l’odore intenso del colore e dell’olio di lino formano un paesaggio tra dune di sabbia e nebbie profumate, in uno spazio che da qualche giorno è nuovamente misurabile e percorribile.
La possibilità di esplorare la navata muovendosi, come nel 2004, tra e dentro le torri, favorisce il dialogo tra manufatti tanto diversi. Come suggerisce Kiefer, dalle piccole stanze alla base dei palazzi si può, per esempio, far correre lo sguardo verso l’alto, sia per poter percepire meglio la precarietà – bellissima, struggente e pittoresca come di rovine antiche – delle strutture, sia per comprenderne la funzione: questi monumenti, con i loro soffitti sfondati, diventano un ponte tra terra e cielo, tra umano e divino. Connessione stimolata anche dalle grandi tele, come Jaipur (2009), memoria dei numerosi viaggi in India, che con il palazzo di düreriana ascendenza denominato Melancholia condivide la rappresentazione dei corpi celesti attraverso la numerazione classificatoria adottata della NASA.
La stessa stratificazione contenutistica e materica presente nelle torri è quindi indagata nei dipinti, in cui i livelli della pittura – ricca, polimaterica, tridimensionale anche grazie all’inserimento di elementi naturali e artificiali – si accompagnano alla complessità del pensiero, come nella paradigmatica Die deutsche Heilslinie. In questa personale declinazione della storia della salvezza germanica va in scena, tra cielo e terra, l’incontro-scontro tra due pensieri filosofici opposti. Da una parte, l’idea che la salvezza si possa raggiungere grazie alle azioni di un leader, tendenza esemplificata dai nomi di Kant, Hegel, Marx… che Kiefer ha inciso lungo la traiettoria dell’arcobaleno. Dall’altra, l’idea che la redenzione possa giungere solo riconoscendo la propria identità individuale, pensiero incarnato dai nomi di quei pensatori – sempre tedeschi, come Nietzsche – che il pittore dispone attorno alla silouhette di un uomo solitario, al centro del dipinto.
Come dice Kiefer, per queste opere complesse, di cui l’artista (ideatore e esecutore materiale) è il solo responsabile, sono necessari lunghi tempi di realizzazione e anche di “contemplazione” da parte del visitatore. Ma lo sviluppo, l’evoluzione, il decadimento materico delle opere non ha realmente termine con la loro pubblicazione. Bisogna quindi osservare con pazienza, magari tornando all’Hangar più volte, nei prossimi anni.
Anselm Kiefer, I Sette Palazzi Celesti 2004-2015, a cura di Vicente Todolì, Hangar Bicocca, dal 25 settembre 2015
Immagine di copertina: Anselm Kiefer, Die deutsche Heilslinie, 2012-2013, courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli