Una proposta per questo fine agosto, a Milano: alla Fondazione Prada è ancora in scena la grande retrospettiva su Edward Kienholz che per quarant’anni ha flagellato con implacabile lucidità l’America e le sue ipocrisie. Queste erano state le nostre impressioni.
Negli anni Sessanta, l’arte americana della East Coast vede il profilarsi di due movimenti fondamentali: la Pop Art, che celebra o critica il consumo tramite un’identificazione iconografica e comunicativa, e la Minimal Art, le cui forme semplici e levigate professano un’ideologia purificata e richiedono una fruizione addirittura religiosa. Queste tendenze hanno in comune un sostanziale rifiuto dell’inconscio profondo e delle categorie del disgusto, pervenendo all’estetica borghese e rassicurante propria dell’oggetto quotidiano o del prodotto pulito e spersonalizzato. Edward Kienholz (Fairfield, 1927 – Sandpoint, 1994), a cui la Fondazione Prada di Milano dedica un’importante retrospettiva per le cure di Germano Celant, fu invece una figura chiave nello sviluppo di una reazione alle correnti sopracitate. Nato in una fattoria di Fairfield (Washington), cittadina rurale che si vanta di celebrare la bandiera americana da ben cento anni, Kienholz approderà a un realismo lurido e sconvolgente, di violenta critica contro la società statunitense e la portata del suo rimosso psichico.
Dopo aver frequentato alcuni istituti d’arte locali senza mai ottenere un diploma, Ed si guadagna da vivere facendo i lavori più disparati (meccanico, assistente in un ospedale psichiatrico, rivenditore d’auto usate e di aspirapolveri, acquisendo abilità che gli torneranno utili in futuro) finché si trasferisce a Los Angeles in cerca di fortuna, trovandosi però costretto a riciclare oggetti prelevati in discarica o ai margini della strada: “Frequentavo certi posti per necessità, non posso permettermi di spendere. A Los Angeles la gente butta via così tante cose che non hai bisogno di comprare niente”. L’altra faccia del capitalismo e del consumo è quella dello spreco, e proprio il riciclo, gli object trouvé e il montaggio sono i principi della scultura di Kienholz — un collagismo che con George Herms, Wallace Berman e Gordon Wagner andava caratterizzando la scena losangelena. Dal 1957, anno in cui Kienholz e il teorico Walter Hopps aprono la Ferus Gallery, si ha l’ascesa: l’artista può permettersi una casa-studio dove realizzare dei grandi environmental tableaux con figure umane in scala reale; nel 1961 il Pasadena Art Museum gli dedica una personale e, soprattutto, si registra la sua presenza alla mostra Art of Assemblage del MoMA. Qui, a soli 34 anni, è affiancato a grandi del calibro di Picasso, Duchamp e Schwitters. Sempre a quell’anno risale la sua prima installazione ambientale, poi esposta con scandalo a Documenta 4: Roxy’s (1960-61), un bordello del Nevada arredato con mobili vintage e popolato da grottesche figure di prostitute e clienti realizzate con la spazzatura.
Il tema della prostituzione e della donna-giocattolo apre la mostra di Prada, che espone ventisei opere non in ordine cronologico, bensì seguendo il climax delle loro intensità particolari. The Bronze Pinball with Woman Affixed Also (1980) è un flipper di Playboy a cui sono montate due gambe femminili spalancate: l’opera contiene un doppio riferimento a Duchamp (nel titolo al Grande Vetro e nell’esibizione dei genitali femminili a Étant donnés) e denuncia il ruolo di vittima della donna nella rappresentazione commerciale del sesso. Questo assunto ritorna in The Rhinestone Beaver Peepshow Tryptich (1980), raffigurazione di un peep show dove sia la donna che l’uomo sono paragonati, nel gioco voyeuristico, a dei sudici roditori, e in The Pool Hall (1990), dove la violenza maschile è incarnata da tre uomini mascherati che giocano a biliardo con la vagina di una donna decapitata. The Bear Chair (1991) riguarda invece lo stupro infantile, perpetrato da un pupazzo Teddy Bear (simbolo dell’infanzia come degli USA) ai danni di una bambola inerte. Questi assemblaggi hanno un sentire familiare all’intreccio fra eros e thanatos, che è sempre presente in Kienholz: si noti il portato sessuale del dripping di vernice bianca che spesso riveste le sue opere, da intendersi anche come rimando ironico e sprezzante all’espressionismo astratto.
Un’intera sala della galleria sud è dedicata alla televisione quale medium di un’informazione violenta ed escrementizia, di volta in volta associata all’istupidimento degli spettatori, all’abuso di minori o alla discriminazione razziale. Menzione particolare a due opere: Useful Art No.1 (Chest of Drawers & TV) (1992) presenta un televisore nell’atto di defecare direttamente sul comò, e Bout Round Eleven (1982) accusa la TV di provocare l’incomunicabilità di coppia. Mentre lo schermo ringhia odiosamente, i due consorti non si degnano di uno sguardo, rimanendo intrappolati nella gabbia della propria solitudine (elemento, quello della gabbia metallica, che ricorda la pittura di Bacon, artista esposto da Kienholz nel 1977). Feroce attacco è rivolto anche alla religione nei suoi aspetti economici ed estetici, secondo un procedimento di messa a nudo di ciò che l’irrazionalità della fede stessa tende a occultare. The Nativity (1961) è un presepe dove Gesù bambino coincide con una luce lampeggiante per lavori in corso, la Madonna ha per corpo il cestello di una moto e San Giuseppe siede su un cavallo a dondolo. L’insieme, in cui compaiono anche reliquiari fatti di saliere e pezzi di automobili e un angelo ricavato da un aspirapolvere, denuncia la commercializzazione del Natale e irride la Chiesa demistificandone il culto fondamentale. Una selezione di settantasei immagini svela invece fino a che punto sia kitsch l’iconografia di Cristo: queste riproduzioni popolari, provenienti da diversi paesi ed assemblate ad altrettanti carretti per bambini e arti di bambolotti a formare dei crocifissi, costituiscono 76 J.C.s Led the Big Charade (1993-94). Lo spettatore milanese deve scovare l’unica immagine erudita, il Cristo alla colonna di Bramante conservato a Brera.
Ma veniamo al grande environment che dà il titolo alla mostra: Five Car Stud (1969-72). Entrati nell’ultimo ambiente, i fari di cinque macchine disposte a raggiera illuminano una scena da incubo. Un afroamericano, sorpreso nel suo pick-up ad appartarsi con una donna bianca, è stato vigliaccamente bloccato a terra dai suoi assalitori. Queste figure grottesche, dalla bianchezza cadaverica e coi visi mascherati da Halloween, sono intente a evirare la loro vittima con un coltello. L’uomo di colore ha un doppio volto: uno interno, in cera, consapevole e rassegnato, e uno esterno, in plastica, urlante di dolore. Il suo corpo è costituito da una tanica di benzina nella quale galleggiano le lettere della parola nigger. Mentre la donna vomita nel pick-up (la cui radio diffonde musica folk tutt’attorno) un altro uomo armato di fucile le fa da guardia e ride, malignamente. All’interno dell’abitacolo di un’altra vettura, un bambino, probabile figlio di uno degli aggressori, è testimone sconvolto e impotente dell’accaduto — così come lo siamo noi fruitori. Five Car Stud, probabilmente ispirata alle immagini razziali di Norman Rockwell, è una delle opere più potenti e riuscite del Novecento, uno degli apici dell’arte come impegno politico dopo Guernica di Picasso. Presentata da Harald Szeemann a documenta 5 (Kassel, 1972), essa suscitò l’approvazione della critica europea ma subì il vandalismo di alcuni visitatori. Comprata da un collezionista giapponese, è rimasta invisibile al pubblico per quasi quarant’anni; restaurata nel 2012 e acquisita dalla collezione Prada, è stata esposta al LACMA di Los Angeles e al Louisiana Museum of Modern Art in Danimarca. In Italia per la prima volta, l’installazione è corredata da documentazioni circa il suo processo creativo e le sue vicessitudini; al suo allestimento ha partecipato la quinta moglie di Kienholz, Nancy Reddin, che proprio dal 1972 ha collaborato alle realizzazioni del marito.
Five Car Stud fu definita da Kienholz stesso come “il simbolo delle minoranze che lottano nel mondo di oggi”. Siccome il mondo, per le minoranze etniche, religiose e sessuali, non è cambiato, la sua forza è rimasta immutata. L’autore si espresse in merito dichiarando anche di sentire sulle spalle tutto il peso di essere americano: un peso che si percepisce nell’interezza della sua produzione, caratterizzata dal mescolare arte e vita sino alla morte. Letteralmente, poiché l’artista, defunto nel 1994 per un attacco cardiaco, fu sepolto all’interno di una sua installazione. Robert Hughes: “Il suo corpulento, imbalsamato cadavere venne adagiato sul sedile frontale di una Packard marrone del 1940. C’erano un dollaro e un pacchetto di carte nelle sue tasche, una bottiglia di Chianti del 1931 accanto a lui e le ceneri del suo cane Smash sul retro. Era a posto per l’aldilà”. È noto che in America si usa imbalsamare ed imbellettare i morti per presentarli in maniera decorosa, come stessero dormendo, ai parenti e amici nel contesto di una veglia a bara aperta. Una sublimazione tutta borghese della morte e del lutto, tramite la rimozione degli aspetti spiacevoli del cadavere, che evidentemente Kienholz non condivideva.
Immagine di copertina: Edward Kienholz, Five Car Stud, 1969–72. Courtesy Fondazione Prada.