Kind of Miles, i linguaggi del mito

In Teatro

Un omaggio intimo a un maestro, un eccellente pezzo di bravura, una incontro di arti per esplorare i segreti del suono. Paolo Fresu e la sua band sono al Carcano fino al 10 novembre. Sold out, e non potrebbe essere altrimenti

“non suonare quello che c’è. Suona quello che non c’è. Non suonare quello che ti piace, suona quello che sta oltre”. E’ il genere di massima che identifica un mito. Forse però, riesce a fare entrambe le cose chi lo status di mito lo sta acquisendo sul campo. Lo certifica l’ennesima catena di sale piene, come i cinque giorni al teatro Carcano, che arriva a valle di una carriera che davvero parla per lui. Questa volta, però, è Paolo Fresu a parlare. Sussurrando come si fa con un segreto, l’eloquio sorvegliato ed elegante di una masterclass. Mentre parla del proprio, di mito, Fresu è l’uno e l’altro. Il figlio di pastore che rompe la monotonia delle solite note strimpellate agli interminabili matrimoni berchiddesi scoprendo un mondo nuovo dentro una cassetta passata con la meraviglia carbonara che si prova solo da ragazzi. E il maestro riconosciuto in tutto il mondo che, oggi, del fascino di quella scoperta, e dell’icona di Miles Davis fa un mezzo per raccontare la musica, il suo farsi, i suoi significati e con essi, il mondo. Kind of Miles apre un libro – l’imponente scenografia – di musica e immagini, dove la paura è una spinta alla scoperta e la musica una fiamma sfavillante.

E di parole che somigliano alle note del jazz, mentre si rincorrono e si levano e rallentando danzano sinuose. Merito anche di una una band di fuoriclasse – con Bebo Ferra alle chitarre c’è Christian Meyer con Stefano Bagnoli alle batterie, e poi Dino Rubino (pianoforte), Marco Bardoscia (contrabbasso), Filippo Vignato (trombone, multi-effetti elettronici, keyboard), e Federico Malaman (basso elettrico), il Maestro (di cerimonie) contraddice le regole del teatro e onora quelle della musica suonando di spalle al pubblico, per poterla guardare, proprio come faceva Miles. Forse – deve aver pensato anche il regista Andrea Bernard – negando l’immagine tradizionale della scena, a prendervi spazio sono le esplosioni (chi l’ha detto che il jazz non “picchia” più di molto rock?) i palpiti della scoperta di un suono si spinge verso “luoghi impossibili” e di suggestivi incontri. Non solo quelli coi miti del jazz, da Ella Fitzgerald a Louis Armstrong, ma anche tra mondi lontani solo in apparenza, come la boxe e il palcoscenico, le due parti dell’anima di Miles.


La tromba canta – non è un’immagine poetica, è il segreto della pratica dello strumento – insieme alle grandi voci, come Billie Holiday, ma presta la sua voce e il suo pensiero, senza cui non si dà canto, a un popolo intero, quello afroamericano, costretto a salire sul ring della storia col compito di combattere per la propria esistenza. In un tempo in cui bastava portare al braccio una donna bianca per finire in arresto anche se si era un mito ma anche in uno – l’oggi – in cui come allora gli sguardi e le sorti, come l’eredità che si portano dietro i sorrisi, sono uguali soltanto in apparenza. Nelle cassette del Fresu bambino come nella nostra memoria, evocata in scena, sorgono allora la rabbia e l’incanto del “principe delle tenebre”, insieme al riverbero, dal fondo dello scantinato della chiesa sconsacrata della Columbia, l’etichetta di Miles. E della musica. Del resto, essa è da sempre la lingua di ogni rito sacro, e come una lingua chiede di essere imparata con “rigore, allenamento e conoscenza degli stili”, le stesse qualità che Miles riconosceva al pugilato, del resto.

Dunque, se la musica come la vita sono una questione di stile, quello che Paolo Fresu porta in scena è (e non ce ne si stupisce) non solo un eccelso pezzo di bravura musicale, ma un compendio di raffinatezza, capace di esaltare i simboli che raccontano e compongono il mito, ovvero chi è capace – con la postura del jazzista – di radicarsi in un sapere antico dove le mani incontrano il pensiero, immergersi in se stesso se stesso puntando la terra come le trombe di Davies e Fresu, per tendersi “tra terra e cielo, tra passato e futuro”.

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