Il gioco dei potenti con tre famosi re shakespeariani, due Enrico e un Riccardo, che si passano il testimone della corona facendoci spesso pensare a oggi
Il potere risponde a una legge a se stante. È indipendente dalle persone che lo incarnano. Obbedisce a una regola soltanto: il potere conserva se stesso. È il gioco del potere, uno dei temi portanti del teatro shakespeariano all’interno del quale i Kings di Alberto Oliva al Tertulliano attingono e provano ad esplorare. Da Riccardo II (il bravo Enrico Ballardini) a Enrico V (Angelo Donato Colombo) uniti dalla figura di Enrico IV (Giuseppe Scordio) il re che spodesta il primo ed è spodestato dal secondo, suo figlio.
Negli stessi luoghi delle opere originali (si tratta di una riscrittura di tre drammi omonimi del Bardo) si consuma la vicenda: non c’è, infatti, attualizzazione immediata per buona parte dello spettacolo, sul finale, invece si esplicita il fil rouge che lega l’uomo politico elisabettiano al più moderno presidente di una superpotenza. Riferimento forse non così necessario, visto che le scelte drammaturgiche hanno già in sé rimandi universali su politica e logiche di governo.
Riccardo è il re infantile, che vuole il potere come fosse il suo gioco, ma lo lascia quando riconosce una figura più potente di lui. Enrico IV è il re abile, un po’ opportunista: non vuole spargimenti di sangue se è garantito a lui almeno un ottimo tornaconto. Ma è il re che cade schiacciato dal consenso. E poi Enrico V, il re che viene dalla strada, quello che conosce tutti gli espedienti per sopravvivere, il re comunicatore. Colombo che lo interpreta percepisce tutte le sfumature del giovane rampante che vuole scappare dall’alta società e costruisce con Piero Lenardon un rapporto padre/amico pieno di sfaccettature.
In una cornice di tubi da cantiere (elementi cari a Scordio che firma la scenografia) lo spettacolo funziona, ma tutto – troppo, forse – è consegnato alla lettura del pubblico. Il regista sonda il terreno dell’assenza del giudizio, ma è Shakespeare: gli stimoli sono così tanti che, senza una visione, si rischia, lo spettatore come lo stesso spettacolo, di restare sulla soglia.