Una mostra al Mudec indaga, attraverso una ricchissima campionatura di opere, le fonti di Paul Klee (1879-1940): modelli e ispirazioni, tra arte non occidentale e miniature medievali, che hanno scandito il percorso mai scontato del grande artista svizzero.
Sono in corso a Milano alcune, interessanti, mostre che possiamo definire “etimologiche”, alla ricerca delle radici di alcune importanti evoluzioni di artisti e opere. Se Vesperbild, curata da Antonio Mazzotta e Claudio Salsi, è una mostra – rigorosa, filologica, e bellissima – sulle origini della Pietà di Michelangelo in San Pietro (ed esposta a pochi passi dalla Pietà Rondanini), diverso è l’approccio sulle radici culturali e iconologiche di due giganti del Novecento: Pablo Picasso (a Palazzo Reale) e Paul Klee al Mudec. È questa una ricerca più evocativa che si interroga sulle ragioni che hanno determinato svolte epocali nel campo dell’arte europea.
Se la mostra di palazzo Reale si rivolge alle influenze che anche il mondo classico – meno esplorate rispetto a quelle dell’arte primitiva – hanno avuto sull’artista catalano, quella del Mudec si concentra proprio sulle radici “etniche” che hanno condizionato l’evoluzione del pittore svizzero-tedesco.
La mostra – più di cento opere – ci accompagna in quel difficile e delicato processo che conduce Klee dall’adesione al movimento espressionista, all’inizio del suo cammino artistico, fino all’elaborazione di una propria magica, inconfondibile cifra stilistica. Importante in questa evoluzione sono il viaggio in Italia, tra l’ottobre del 1901 e la primavera del 1902, l’irrompere sulla scena della riflessione di Kandinskij, un secondo viaggio – forse ancor più decisivo –in Tunisia, la guerra, la morte di Franc Marc, suo amico e sodale dell’esperienza espressionista, al fronte nel 1916.
Il viaggio in Italia, quando ha poco più di vent’anni, rivela a Klee un’attrazione per l’arte bizantina e paleocristiana: è questa l’arte che – più del Rinascimento e del Barocco – risponde a quell’esigenza di rompere il canone tradizionale comune a tutti i più grandi protagonisti della sua epoca. Il viaggio a Tunisi lo pone – dal vivo – a confronto con quelle suggestioni di arte primitiva e non occidentale che da diversi anni, grazie alle fotografie e ai reperti riportati dai viaggi d’esplorazione, intrigano sempre di più artisti e artigiani europei.
In una nota dei Diari, successiva all’esperienza bellica, Klee scrive: “Quanto più è spaventoso questo mondo, come oggi, tanto più è astratta l’arte, mentre un mondo felice produce un’arte al di qua”. La sua ricerca astratta si rivolge quindi all’Asia, all’Africa, all’America precolombiana, e a stili da poco rivalutati (risuscitati scriveva Malraux a proposito di Picasso): Bisanzio, l’arte medievale con le sue miniature, gli evangeliari. Senza dimenticare gli argomenti che a un livello profondo da sempre gli hanno suggerito la sua passione – e conoscenza – della musica.
La riflessione dell’artista si distacca quindi dal filone tradizionale, anche d’avanguardia. Si fa spirituale, si rivolge a mondi possibili da opporre al nichilismo imperante in Europa nel dopoguerra. Nasce, attraverso questo elaborato e tormentato percorso, l’artista cosmico.
La mostra del Mudec è divisa in sezioni: Caricature, Illustratore cosmico, Alfabeti, Policromia e astrazione, Stanza dei bambini e museo etnografico. Un itinerario che ci consente di seguire – senza l’obbligo di una cadenza strettamente cronologica – la ricerca incessante di Klee di una via personalissima, di una visione unica, assoluta: quando si incontra una sua opera in un museo o in una collettiva se non è – come il più delle volte – isolata, quando il suo “disegno” si confronta con gli altri dipinti, sembra essere fatto di un’altra pasta, di un diverso materiale; forse, più semplicemente, si svolge in un’altra dimensione.
Il fine di questo processo è un’arte di serenità metafisica “che riesce a instaurare dimensioni fantastiche equidistanti dalla disperazione e dalla più rigida ortodossia” (Hausenstein, citato nel penetrante saggio d’apertura del catalogo di Michele Dantini).
Il tracciato di Klee si svolge da questa svolta in avanti in maniera coerente e leggibile. La composizione perde l’obbligo dell’oggetto ed esprime la sua bellezza interiore. Il paesaggio perde la necessità di una topografia di riferimento. Nelle opere, sempre e rigorosamente di piccolo a volte piccolissimo formato, trovano posto, fino a diventare soggetti principali, ideogrammi, stenogrammi, alfabeti fantastici. I curatori li chiamano – giustamente – psicogrammi o onirogrammi.
L’arte di Klee perde la sua funzione immediatamente descrittiva per diventare psicologia dell’umanità. E nell’arte primitiva, nei tappeti del Nordafrica, nelle maschere precolombiane, come nella misteriosa impaginazione dei primi codici miniati, degli evangeliari altomedievali (di cui la Germania fu incessante produttrice), non è l’ingenuità a interessarlo, né tantomeno la perfezione e la fantasia decorativa. È l’approccio magico-fantastico che lo attira, l’assoluta libertà stilistica. E la straordinaria disciplina che questi manufatti rivelano.
In questi stili poco esplorati Klee ritrova lo specchio della sua esigenza di superare la gabbia naturalistica, la “finestra albertiana”. Superare questi vincoli vuol dire entrare in un nuovo “testo” in cui l’artista trova la possibilità di esprimere le sue nuove esigenze, quelle scaturite dall’essere diventato un’eremita dell’arte, di potere manifestare un atteggiamento puro, se non addirittura religioso. Quell’atteggiamento cosmico che lo mette al riparo da qualsiasi decorativismo o calligrafismo.
Quasi ogni pezzo della mostra merita una sosta particolare, una riflessione mirata. Tra le opere della sezione astratta ve ne sono alcune in cui il dialogo tra titolo e disegno – mai occasionale per l’artista – diventa particolarmente stimolante. Sono quelle che i curatori definiscono “astrazioni con memoria” in cui il gioco tra figurativo e astratto sembra una sottile e personalissima riflessione dell’artista: un gioco che ci coinvolge e ci inquieta. Strutture formali che richiamano – secondo il titolo – un parco, una città, una cattedrale, le mura di Sicilia, una struttura urbana. Oppure magie totalmente diverse.
La sezione finale, che espone sorprendenti statuine di Klee, ci confronta poi con alcuni pezzi della collezione entografica permanente del museo. Un riferimento corretto. Ma le suggestioni che Paul Klee evoca negli spettatori vanno, fortunatamente, molto oltre.
Immagine di copertina: Paul Klee, Roccia artificiale, 1927, Kunstmuseum Thun. Foto: Christian Helmle