A Palazzo della Ragione un’importante monografica celebra il grande fotografo americano. Dalla formazione con Fernand Legér alle pionieristiche foto di moda, dalle amicizie illustri alla street photography.
“Sono venuto da fuori, le regole della fotografia non mi interessavano… con una macchina fotografica si potevano fare delle cose che non erano possibili con nessun altro mezzo: sgranatura, contrasto, sfuocatura, inquadrature di traverso e via dicendo. Pensavo mi sarebbe piaciuto mostrare cosa era possibile ottenere…” . William Klein
C’è tempo fino all’11 settembre per vedere William Klein. Il mondo a modo suo ospitata a Palazzo della Ragione e curata da Alessandra Mauro, direttore editoriale di Contrasto.
Klein non è solo il fotografo sperimentale e anticonformista che conosciamo: è pittore astratto, artista visivo, cineasta, grafico, scrittore. Americano di nascita ma francese di adozione, Klein si forma presso l’atelier del pittore Fernand Léger, che gli insegna a disimparare le forme tondeggianti, i contorni sfumati, la reverenza verso le gallerie, e a prediligere le pennellate d’impatto, i colori gridati e i contrasti netti, tutti elementi che si ritroveranno poi nei suoi lavori fotografici.
Ed è sempre Léger a impartirgli un’importante lezione che plasmerà la sua carriera da fotografo: “Vi vedo così, tutti ossessionati dai musei, dalle gallerie, dai curatori, ma sono solo stupidaggini. Guardate al quattrocento italiano”. L’invito di Léger è a tornare in strada, collaborare con gli architetti, prendere parte alla vita della città. La prima mostra di William Klein è italiana ed esibisce pitture murali al Piccolo Teatro, invitato da Giorgio Strehler. Con l’Italia avrà un legame speciale: sarà assistente di Fellini, amico di Pasolini, ammiratore di Laura Antonelli. A Roma, per Vogue, è stato il primo a portare le modelle in strada, facendole sfilare in Piazza di Spagna, sotto lo sguardo incuriosito e inebetito dei passanti.
“Quando mi mostrarono gli abiti mi fu immediatamente chiaro che le modelle avrebbero attraversato Piazza di Spagna sulle strisce pedonali […]. Ero in cima alla scalinata con la mia macchina fotografica, all’insaputa della gente. Gli uomini iniziarono a pensare che fossero prostitute impazzite e si avvicinarono, cercando di palparle. […] La direttrice di Vogue andò nel panico e gesticolando mi disse di fermarmi.”
Klein è spesso chiamato l’anti Cartier-Bresson, anche se, ignaro, comprò una sua Leica di seconda mano. Non cerca l’istante perfetto, ma il “grado zero della fotografia”. Scatta la vita dei quartieri, si sporca le mani, è “osservatore partecipante”. Cerca di catturare la personalità del suo soggetto, in qualunque modo emerga, non insegue un attimo concluso e perfetto. La sua fotografia è un frenetico divenire, non si esaurisce nell’immagine, ma continua prima e dopo lo scatto.
È una fotografia contaminata, disordinata, sgranata, spesso sfuocata, quasi sempre tagliata male. “Se si guarda attentamente la vita, si vede sfocato. Agita la mano. La sfocatura è una parte della vita“.
Il suo primo libro, Life is Good and Good for you in New York, anno 1956, è oggi una pietra miliare della street photography, ma la pubblicazione fu rifiutata da Vogue, che pure ne aveva finanziato il progetto, e accolta invece a Parigi dalle éditions du Seuil. Qui New York appare sporca, stanca, cadente, popolata da gente comune, spettinata, a volte strabica. Una città lontana anni luce dalle patinate vetrine della Quinta Strada. “La gente pensa che l’America sia un paese generoso, il paese della libertà; è anche razzista e antisemita”.
Già nel suo primo libro fotografico si affermano quelli che saranno i tratti principali della sua fotografia: i primi piani ottenuti con obiettivi grandangolari, per permettere di cogliere l’individualità del soggetto ma anche il panorama circostante; gli scatti appositamente sfuocati, scossi; l’inquadratura tagliata, le sovraesposizioni.
I suoi carnet di viaggio includono Mosca, Tokyo, Roma, Parigi. Nei suoi scatti, anche Parigi rivela il suo lato vitalistico e ribelle e smette di essere la romantica “città grigia popolata da bianchi”, per diventare “un melting pot, una città cosmopolita, multiculturale e completamente multietnica”.
Sperimenta anche nel cinema, il suo primo film è del 1958, Broadway by Light, una specie di viaggio semi-cosciente nelle luci del “giorno artificiale” create da Broadway (pellicola che, tra l’altro, vanta la competenza tecnica di Alain Resnais). “Gli Americani hanno inventato il jazz per consolarsi dalla morte, e Broadway per consolarsi dalla notte.” Ma gira anche documentari, il più celebre quello su Cassius Clay, intitolato Mohammed Ali the Greatest, altri sul movimento Black Panther, oltre a qualche lungometraggio sperimentale. I più curiosi, oltre alla mostra a Piazza dei Mercanti, potranno ammirare un suo provino a contatto dipinto all’hotel Park Hyatt, di fronte alla galleria Vittorio Emanuele.
Immagine di copertina: Autoritratto, Parigi, 1998