Variazione multiculturale (e attualissima) del paradigma di Romeo e Giulietta, il romanzo di Kurban Said è una storia d’amore ambientata alla vigilia della prima guerra mondiale nella cosmopolita Baku. Un giovane azero musulmano si innamora di una principessa georgiana: la macrostoria irrompe nella loro vicenda. E costringe lettrici e lettori a interrogarsi sul perenne tema del significato del confine.
In Maschere per un massacro (pubblicato da Editori Riuniti nel 1996), Paolo Rumiz si chiede dove siano i Balcani, intesi come territorio del caos al di là del limes europeo. A Trieste pensano che i Balcani si trovino già subito dopo il confine con la Slovenia. A Lubiana sostengono che cominciano dopo il confine con la Croazia e a Zagabria dopo quello con la Serbia. A Belgrado affermano di essere «i difensori dell’Europa contro il Turco». Mentre a Istanbul «provatevi a dire che la Turchia è Oriente. Insulto sanguinoso.» (quando Rumiz scriveva, i massacri in Bosnia-Erzegovina erano da poco terminati, Recep Erdoğan era solo sindaco di Istanbul, i talebani e al-Qaida erano noti a malapena ai dottorandi nei dipartimenti di studi orientali e i russi bombardavano Groznyj).
Se Rumiz, nella sua ricerca del limes europeo, non va oltre Istanbul, a spostarlo ancora più a Oriente ci pensa Kurban Said: nel romanzo Ali e Nino (da poco uscito negli Oscar Cult di Mondadori nella traduzione di Stella Sacchini e Ilaria Mazzaferro) Said fissa il confine in un punto in cui un ulteriore sorpasso a est risulta difficilmente immaginabile, cioè a Baku, in Azerbaigian. Solo che, dal punto di vista di Said, al di là del limes non c’è esattamente il caos. Ma prima di capire cosa ci sia al di là (e al di qua) del confine, facciamo un passo a lato.
Chi è Kurban Said? In questa sede basti dire che il musulmano azero Kurban Said è in realtà nome de plume dell’ebreo russo Lev Nussimbaum (per la ricostruzione della complessa opera di identificazione dell’autore rimandiamo all’ottima ed esaustiva introduzione dell’arabista Enrica Fei). Lev nasce a Baku nel 1905, figlio di un ricco petroliere; ricordiamo che l’Azerbaigian, dopo due secoli sotto il dominio persiano, all’inizio del XIX secolo diventa una provincia dell’impero zarista e che, tra la fine del XIX secolo e la rivoluzione russa del 1917, vive un vero e proprio boom petrolifero. Proprio nel 1917, come moltissimi esponenti delle classi borghesi e agiate abbandonano la Russia bolscevica, così i Nussimbaum lasciano Baku e dopo lunghi soggiorni in Asia centrale, Iran e Turchia approdano a Berlino nel 1921. A Berlino Lev si fa notare per l’impressionante conoscenza delle culture e lingue orientali e, sotto lo pseudonimo di Essad Bey, per l’instancabile attività giornalistica e saggistica. Con l’arrivo al potere dei nazisti e la scoperta della sua origine ebraica, Lev perde i diritti civili e la possibilità di lavorare e muore in povertà in Italia nel 1942.
Ali e Nino esce nel 1937 e racconta la storia d’amore tra l’azero (di origine persiana) Ali Khan Shirvanshir e la georgiana Nino Kupiani. L’azione si svolge tra il 1905 e il 1920, quando l’Armata rossa invade l’Azerbaigian, che dopo il collasso dell’impero zarista vive una breve e tormentata stagione d’indipendenza.
L’autore è abilissimo nel calare i personaggi e gli eventi in coerenti dimensioni spaziali, temporali e culturali lungo la faglia tra Occidente e Oriente. E qui torniamo al limes: mentre Rumiz intende l’al di qua del confine come l’Europa, cioè la civiltà occidentale con la libertà, la democrazia, lo stato di diritto eccetera, per l’io narrante del romanzo è l’al di là del confine, l’Asia, il territorio della civiltà. Non manca in Nussimbaum una generosa dose di provocazione, ma è necessaria, perché allora l’uomo bianco sentiva ancora il peso del suo fardello (per dirla con Rudyard Kipling) e persino il discorso occidentale sull’Oriente era una forma di colonialismo (e qui pensiamo agli studi di Edward Said, citato da Fei nell’introduzione). In Ali e Nino, l’Occidente è rappresentato, in primo luogo, come potenza coloniale: è potenza coloniale la Russia prima zarista e poi bolscevica, con l’Armata Rossa che occupa l’Azerbaigian per le sue risorse e per “liberare” i russi rimasti a Baku, come lo è la Gran Bretagna, che si fa garante dell’indipendenza dell’Azerbaigian, finché a Versailles un nuovo tratto di penna su una mappa non decide diversamente, e non esita a lasciarlo al suo destino. In secondo luogo, l’Occidente è rappresentato come potenza tecnologica senza civiltà. L’idea che lo sviluppo tecnologico dell’Occidente, che era uno dei pilastri su cui si fondava il suo predominio sul pianeta, fosse in realtà avvenuto a scapito della sua civiltà, verrebbe da dire a scapito della sua anima, era indagata negli anni in cui venne scritto Ali e Nino: Julius Evola pubblica Rivolta contro il mondo moderno nel 1934, Johan Huizinga La crisi della civiltà nel 1935 ed Edmund Husserl La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale nel 1936 (per tacere di Oswald Spengler, Mircea Eliade, José Ortega y Gasset e René Guénon).
Non è un caso che una delle immagini più belle del romanzo sia quella di un’auto europea inseguita dal protagonista a cavallo, metafora perfetta dell’Occidente tecnologico, ma impotente di fronte alla complessità dell’Oriente (vengono in mente le recenti invasioni dell’Afghanistan, quella sovietica del 1979 e quella anglo-americana del 2001, che si sono entrambe concluse con poco onorevoli ritirate):
«All’improvviso, scoppio a ridere di gusto. Che meraviglia, siamo in Asia, nell’Asia selvaggia e reazionaria! Qui non ci sono strade lisce per le auto occidentali, ma solo sentieri accidentati per i cavalli del Karabakh. Quanto può andare veloce una macchina e quanto corre veloce un cavallo del Karabakh?»