Gli Játékok – dice la pianista Maria Grazia Bellocchio, che li ha eseguiti al Museo del Novecento – sono brani poetici, ispirati dal rapporto che il bambino ha col pianoforte
«Milano la domenica mattina è molto bella». L’ho sentito dire da un aspirante runner incastrato in metropolitana come un soldatino, insieme ad altre migliaia di partecipanti alla maratona il 12 aprile. Ed io, che mi stavo recando al Museo del Novecento per il “monografico” dedicato a György Kurtág, organizzato da Divertimento Ensemble, mi sono trovata a pensare la stessa cosa.
Davvero una bella giornata per incontrare la musica di Kurtág, attraverso le riflessioni della pianista Maria Grazia Bellocchio che mi riceve al termine del concerto in cui ha presentato una selezione di brani dalla raccolta Játékok (1972-83) del compositore ungherese.
Játékok in ungherese significa “giochi” ed è stato originariamente ispirato dall’osservazione dei bambini e del loro approccio libero, non ancora informato allo strumento. In che modo Kurtág riconfigura questo rapporto?
Il primo volume presenta i brani in ordine progressivo di difficoltà ma, diversamente da Bartók, che con Mikrokosmos ha scritto un vero e proprio metodo, Kurtág inizialmente pensa al bambino che gioca col pianoforte, a partire dalla prima volta che si avvicina, lo tocca con le mani e col palmo. I primi Játékok sono così, dei cluster: la codificazione in partitura della manina che copre 4, 5 note non di più. A poco a poco però i brani si fanno più complicati e il gioco diventa sempre più difficile: i cluster più ampi richiedono l’intero braccio, poi viene aggiunto il pedale.
Dopo questo primo volume la raccolta è cresciuta notevolmente negli anni, accompagnando la gran parte dell’attività di Kurtág. Come proseguono i successivi otto volumi?
Sono composizioni che abbracciano un arco molto lungo di tempo e ne sta ancora scrivendo di nuove. Nei volumi successivi sono entrati pezzi di difficoltà diversa e per adulti: non solo sono previsti anche accordi molto ampi, che la mano di un bambino non potrebbe fare, ma anche la scrittura, il modo di dividere le varie figurazioni tra le mani si fa più complesso. Direi che si tratta di pezzi per adulti che vogliono suonare in un modo diverso, con un approccio diverso al pianoforte.
Spesso il compositore usa le forme musicali convenzionali per trarne degli spunti o per ripensarle dal loro interno. Ci sono anche in Játékok?
Nella raccolta ci sono per esempio molti valzer, di vari tipi: si va da quello molto secco, cromatico, non melodico però molto misurato a quelli eseguiti oggi – Waltz, Valse (la sauterelle dévote) – che sono costruiti su dei salti considerevoli sulla tastiera. Diversamente dal valzer tradizionale, nel quale, in genere, accade tutto al centro del pianoforte. Qui è pieno di difficoltà, tutto in piano. La partitura prescrive l’uso del pedale: ma non si può mettere come nel valzer perché è pieno di staccati, tenuti, legati. Il risultato è complicato e l’approccio non è del tutto naturale. È necessario studiare e verificare ogni volta il modo di avvicinarsi al pezzo. Un’altra difficoltà è rappresentata dalle dinamiche, soprattutto quelle del piano, che Kurtág differenzia moltissimo fino a rendere molto difficile il controllo del tasto.
Quali sono gli altri elementi che si ritrovano nelle altre opere?
Una poetica del frammento legata a una fortissima espressività; nei pezzi lunghi questa poetica del piccolo si allarga, si dilata, si carica di intenzione musicale. Tanta dolcezza e poesia ma anche una certa facilità a cambiare velocemente le situazioni musicali. Si tratta di una scrittura piuttosto esile, fatta di sonorità molto in piano che però, talvolta, viene interrotta bruscamente. Alcuni pezzi come Stele raggiungono una grandissima drammaticità.
in Játékok si trovano piccole formule, poche note, in cui sembra poter riversare tutta la sua vita. È probabile che dentro questi pezzi, che sono quasi un diario, abbia messo dei suoi ricordi: il pensiero per una persona, il ricordo di un compositore o di una danza. Kurtág ha una tale fantasia e intensità che credo che qualsiasi cosa vede possa diventare musica. Anche un dolore o un lutto, sono indicazioni sue.
Un’altra caratteristica che mi sembra di avere ascoltato anche questa mattina è una specie di qualità pneumatica interna alla partitura, un progressivo gonfiarsi e crescere dell’intensità seguita da cadute.
Kurtág non quantifica lo spazio vuoto, quello che ci può essere tra due suoni o tra due idee musicali. Probabilmente è un invito a considerare la risonanza, ciò che rimane di un suono, prima di eseguire quello successivo; e a comprendere il respiro, lo spazio che c’è tra un’idea e l’altra. Il fraseggio lo indica sempre, con delle legature tratteggiate. Come nell’ultimo bis di oggi (Ligatura Y) spesso le frasi sono paragonabili a dei versetti, seguite da corona, dopo i quali si respira prima di proseguire.
Accanto alla poetica del frammento si scopre una grande importanza gestuale.
Certamente. Kurtág è anche molto ironico. Ho suonato alcuni brevi pezzi per trombone e pianoforte, piuttosto recenti. Tra questi c’è un omaggio a Paganini in cui il trombone, che è lo strumento meno agile in questo senso, deve imitare qualcosa di simile alla Campanella, mentre il pianoforte fa dei cluster.
Sempre in Játékok c’è un omaggio a Tchaikovsky, dove le prime pagine del primo concerto per pianoforte (una sequenza di accordi e ribattuti), sono imitate con dei cluster in fortissimo, quasi dei rumori. Però il gesto è lo stesso che compie chi suona il concerto di Tchaikovsky, ovviamente è scherzoso. Pezzi spiritosi nello spirito degli altri due bis di oggi: Fondamenti, Lezioni di ungherese a uno straniero.
Su youtube è possibile trovare una registrazione in cui Kurtág e sua moglie eseguono dei pezzi di Játékok: in quelli a 4 mani ce ne sono alcuni in cui proprio si scambiano le mani, le incrociano in un movimento molto delicato e i due quasi si abbracciano, è molto bello.
In molti pezzi la gestualità è parte importantissima. Gli stessi cluster, quando sono molto forti, richiedono di andare con tutto il corpo sullo strumento.
Negli ultimi anni ha eseguito molte volte Játékok in concerto: c’è un rapporto speciale con questa musica?
Mi piace perché è piena di poesia e anche di libertà. Lascia spazio. Nella storia della musica moderna la partitura si arricchisce sempre più di segni, fino ad arrivare al ‘900 in cui praticamente su ogni nota c’è un’indicazione. Così nell’aggiungere una sua interpretazione l’esecutore si sente molto condizionato. Kurtág non torna al passato, ma comunque propone un modo diverso di far musica e questo per me è molto bello.
Lascia molto spazio all’interprete?
Assolutamente. Anche se, devo dire la verità, quando ho lavorato con lui mi ha colpito la sua precisione: sa esattamente cosa vuole da un pezzo in cui pure non usa la battuta e nemmeno l’indicazione di tempo. Ha molto chiaro un suo rubato e un modo preciso di gestire lo spazio e il tempo. Le sue indicazioni espressive aiutano molto a orientarsi. Direi che la difficoltà nel suonare questi pezzi non è tecnica, ma sta proprio nel riuscire a dare una forma, un senso e una densità musicale. Molto spesso mi sento tesa interiormente, è una musica molto diretta che effettivamente obbliga a una concentrazione incredibile. Non so se provoca queste cose anche a chi ascolta, però devo dire che crea delle atmosfere molto intense, non c’è mai niente che possa distrarre perché è tutto talmente essenziale.
L’ultimo appuntamento di queste Sei monografie, il 28 giugno, la vedrà a fianco di Helmut Lachenmann a eseguire e analizzare Ein Kinderspiel, brano ancora più legato a intenti pedagogici. Qual è la sua esperienza di musicista e di didatta?
Insegno al Conservatorio di Bergamo e tengo un corso parallelo di prassi esecutiva contemporanea. Nei piani di studi qualcosa si muove. Nei corsi superiori, biennio e triennio, c’è l’obbligo di presentare ogni anno almeno un compositore contemporaneo. Per ampliare la conoscenza bisognerebbe ripensare i concorsi e richiedere alcuni pezzi contemporanei oltre a quelli classici. Anche i direttori artistici delle istituzioni più tradizionali potrebbero provare a mescolare i linguaggi, con più fiducia nella possibilità di rinnovare le abitudini di ascolto del pubblico.
Il primo approccio per un allievo è faticoso. Ma superate le difficoltà di lettura e di interpretazione, riscontro sempre una certa soddisfazione e anche dello stupore di fronte alla scoperta di tanta bella musica.
Prossimi appuntamenti: 24 maggio, Luis de Pablo; 31 maggio, Salvatore Sciarrino; 14 giugno, Sofjia Gubajdulina; 28 giugno, Helmut Lachenmann.
Al Museo del Novecento, Divertimento Ensemble – Rondò 2015 nell’ambito della rassegna Sei monografie presenta György Kurtág, da Játékok (1972-82), Maria Grazia Bellocchio, pianoforte