In “L’amore è una favola” di Annarita Briganti la patina ha uno smalto andato a male, la precarietà è della mente prim’ancora che professionale, il sentimento si misura a mail, morbosità e maniacalità tutte contemporanee.
Con Non chiedermi come sei nata aveva affrontato un tema tabù – potrebbe sembrare una sintesi raffazzonata e semplicistica, ma così non è: quello della fecondazione assistita. Annarita Briganti, giornalista culturale per magazine e quotidiani, aveva messo nella bocca di Gioia – che nel romanzo, di mestiere, compra il pane grazie allo stesso mestiere della sua creatrice – tutte le parole sanguinolente che una donna alla ricerca disperata della maternità potesse urlare. In quel romanzo, come in quello di cui ci prepariamo a discutere – L’amore è una favola – Briganti lavora nella maniera che le riesce meglio: quella di creare un’atmosfera precisa. Un aere prestabilito, in cui rimette in discussione le vicende della sua Gioia, alter ego mai troppo dichiarato che questa volta fa cozzare, suo malgrado, le dinamiche del mondo precario dei giornalisti con quello dell’arte.
Un para-universo in cui la fa da padrone un divo intoccabile, un uomo all’apparenza meraviglioso che farà di tutto per distruggere l’animo, già dolente, di una donna che non sa più come soffrire. Bridget Jones all’italiana? Manco un po’. Briganti ha il grande merito di conferire, alla sua protagonista e al mondo che la circonda, un glamour volutamente sottotono. In L’amore è una favola la patina ha uno smalto andato a male, la precarietà è della mente prim’ancora che professionale, il sentimento si misura a mail, morbosità e maniacalità tutte contemporanee. L’autrice ha dalla sua uno stile secco – perfetto per descrivere i molti sogni di una donna che combatte giorno dopo giorno contro elementi più grandi e annichilenti di lei – e l’invidiabile capacità di descrivere l’indolenza e l’estetismo un po’ cheap degli ambienti culturali del nostro paese. E, sopra ogni cosa, un’atmosfera sospesa, quasi ebbra, che Briganti riesce a declinare con grazia e (auto)lesionista (auto)ironia.
Si lotta tanto per accedervi, ma poi resta solo quel mal di testa insopportabile che segue vernissage soffocanti, o presentazioni indigeste. Un’emicrania continua, che nel libro della Briganti si mescola sapientemente a un amore incosciente e disgraziato, a un anti-estetismo in sottrazione che non è mai pigramente rozzo, ma predilige il percorso della dignità e della compostezza. Non perché ci sia poco da dire, anzi; ma perché, in fondo, Gioia è una persona perbene: ha già urlato troppo.
Immagine di copertina by Black Zack