Premiato come miglior regia all’ultima Berlinale, il nuovo film del regista texano è una storia ironica e poetica, in bilico tra ragione e sentimento. Un bieco dittatore giapponese, fedele ai gatti e ostile al miglior amico dell’uomo, confina tutti i cani della sua città, con la scusa che propagano una malattia incurabile, in un lager in mezzo al mare. Sarà il figlio adottivo a soccorrerli, per salvare il suo Spots
In un futuro non troppo lontano, nella fittizia città giapponese di Megasaki, il malefico sindaco Kobayashi (gattofilo convinto) odia i cani e decide di farli sparire per sempre. Prima li rende invisi alla popolazione, diffondendo una grave malattia priva di antidoto, poi confina tutti i superstiti su un’isola artificiale formata da cumuli di spazzatura. Ma proprio il figlio adottivo del sindaco, il dodicenne Atari, decide che l’amicizia fra uomini e quadrupedi non può finire così. E sulle tracce del suo cagnolino, Spots, atterra sull’isola scombussolando i piani di chi pensava di aver definitivamente risolto il problema. Insieme a un gruppo di eroi a quattro zampe – tutti un po’ malconci, ma invariabilmente dotati di cuore e cervello, oltre che di una profonda malinconica saggezza – Atari si farà protagonista di una vera e propria pacifica rivoluzione.
I detrattori sostengono che Wes Anderson non fa che ripetere sé stesso, i più benevoli ammettono che con uno stile come il suo, così straordinariamente unico e riconoscibile, è praticamente impossibile fare altrimenti. Ma in realtà il regista texano, che grazie a questo L’isola dei cani si è portato a casa comunque il premio alla miglior regia nell’ultima Berlinale, non si ripete affetto, se non nella misura in cui ogni autore insegue costantemente le proprie ossessioni, per tutta la vita, film dopo film, e non può che essere così. L’autore dei Tenenbaum e di Moonrise Kingdom all’apparenza realizza pellicole che si somigliano molto, ma in realtà risultano poi sempre parecchio diverse, perché rispetto alle sue ispirazioni divaga ogni volta in modo differente, offrendo ogni volta al pubblico che lo ama un sorriso o un’emozione in più, un momento che da solo vale la visione dell’intero film.
In questo caso un momento solo è difficile da individuare. Perché sono tante le sequenze magiche, emozionanti, francamente commoventi, in questa storia di ribellione, amicizia e coraggio, perennemente in bilico fra ragione e sentimento, ironia e poesia. Un inno alla tolleranza sotto forma di una favola gentile ma mai banale, colma com’è di dettagli sorprendenti e bizzarrie affascinanti. Uno strano oggetto eccentrico e cangiante, che sembra procedere in modo lineare ma si rivela capace di continue giravolte e singolari soprassalti, fino ad apparire come un magnifico agglomerato di realtà e fantasia, stratificato, labirintico, decisamente tridimensionale.
Il tutto girato con la faticosissima e meravigliosa tecnica della stop motion (costruendo pupazzi incredibilmente espressivi e facendoli muovere 24 volte al secondo) e avendo a disposizione una lista di voci lunghissima e a dir poco strabiliante (Bryan Cranston, Jeff Goldblum e Scarlett Johansson nei ruoli principali, in parti più piccole Bill Murray, Harvey Keitel, Frances McDormand, Greta Gerwig, Edward Norton e Liev Schreiber). Con un’avvertenza: solo i cani parlano in inglese (in italiano, nel nostro doppiaggio), e sono quindi comprensibili allo spettatore. I protagonisti umani, tranne poche eccezioni, parlano solo giapponese, venendo giustamente condannati (dal regista) all’incomunicabilità.
L’isola dei cani, film di animazione di Wes Anderson