Antonio Latella dirige “L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofaghi”, ma la faccenda sembra non interessargli troppo
Antonio Latella, come sempre scoppiettante di voglia di teatro, mentre prepara due spettacoli “doppi” – l’Amleto in due serate, una inglese e una danese, e La valle dell’Eden di Steinbeck – tenta di intervallare l’impegno, dopo l’Aminta, con una specie di cabaret ad associazioni libere ispirato molto da lontano alla celebre vignetta del signor Bonaventura, personaggio con bombetta e mantellina rosse creato nel 1917 da Tofano e reso celebre dalla Domenica del Corriere dove (fino al 1978) alla fine di ogni avventura veniva ripagato con un assegno da un milione. Qui avrà il refrain di Money money money il song di Cabaret.
È difficile regolare il traffico delle piccole invenzioni, delle trovate, dei grotteschi ripensamenti e delle calcolate ripetizioni con cui il regista, facendo calare due pareti transatlantiche con un oblò, ci vuole portare a spasso nella deformata fantasia di qualcosa che non gli interessa neppure lontanamente. Tanto che il Bonaventura prigioniero degli antropofagi nell’Isola dei pappagalli è un vecchio sulla sedia a rotelle che può solo ripensare al passato.
Ma lo spettacolo, che ottiene allo Stabile di Torino il massimo della freddezza dimostrato dal pubblico degli abbonati, molti dei quali fuggono nell’intervallo, non si capisce dove voglia parare e nello scheletro non si scorge vera materia teatrale: alla base il senso del grottesco, le variazioni sull’uso improprio della musica popolare con infinite citazioni da Sanremo e altri juke-box, c’è una lunga auto-citazione da un brano superbo di Santa Estasi (il coro delle donne che diventava una cantilena), c’è di tutto e di troppo, ma alla fine non riusciamo a tirare una corda che sia quella giusta. Il nome di Tofano e di Nino Rota in locandina non deve far cadere nel tranello della rievocazione, neanche della commedia musicale ispirata a questo soggetto che lo stesso Latella recitò 18enne da ragazzo diretto da Franco Passatore e contro cui oggi si vendica.
Il programma para di universo dadaista, di una nuova tappa di ricerca sul verso (da Tasso a Sto), di un esprit glorioso dell’infanzia perduta, ma sembrano note di chi non ha visto lo spettacolo o se lo immagina e spera porti in dote questi doni. Invece è proprio un pasticciaccio in cui si riconosce la mano maestra del regista ma è come se meccanicamente si limitasse ad orchestrare i suoi attori, tutti bravissimi nel seguirlo, tanto che si arriva al cane bassotto che balla un twist col suo padrone Bonaventura, sulla nave Teresina e con i marinai e fauna di varia umanità sperduta tra “cannibali brutti e pappagalli belli”.
Si ripetono le parole, i nonsense, le filastrocche, ma il viaggio non c’è, non c’è l’incanto, non c’è la maraviglia, non c’è neppure il solito milione. Adattato da Linda Dalisi, il fumetto di Sto è recitato con spreco di talento da Michele Andrei, Caterina Carpio, Leonardo Lidi (regista emergente, ex star degli Atridi), Francesco Manetti, Barbara Mattavelli, Marta Pizzigallo, Alesso Maria Romano e Isacco Venturini oltre a 4 musici a bordo palco che predispongono il menù sonoro. I costumi di Graziella Pepe sono belli, fantasiosi, inventivi.
Fotografia © Brunella Giolivo