Il classico goldoniano rivive grazie a Manifatture Teatrali Milanesi: buona la confezione, ma tutto è un po’ piatto
Natale: tempo di classici! Devono aver pensato così anche quelli di Manifatture Teatrali Milanesi, neonato sodalizio artistico tra Quelli di Grock e il Teatro degli Eguali (il Litta, per intenderci), quando per chiudere questo 2015 hanno deciso di puntare sulla celeberrima Bottega del Caffè di goldoniana memoria. Un evergreen teatral-tradizionale che certo non sfigura tra la fetta di panettone e gli ormai proverbiali “guanti di nonna”, quelli che se da una parte soffocano con morbida crudeltà le speranze di chi scarta il pacchetto, dall’altra attivano una perversa cupidigia da collezionista filatelico. “Celo..celo…celo…manca!”. E in effetti un Goldoni in chiave musical è una rarità (sebbene proprio la Bottega del caffè nasca come intermezzo musicale nel 1736) che rivendica, con buona pace dello spettatore esigente, il proprio fascino eccentrico di pastiche popolare vistosamente kitsch. Peculiarità che nello spettacolo firmato da Valeria Cavalli e Claudio Intropido vengono enfatizzate fin dalla prima scena dove ad aprire le danze è un Pandolfo cow-boy dagli abiti sberluccicanti che ci invita ad entrare nella sua bisca con tanto di risata mefistofelica.
Un po’ Las Vegas e un po’ Moulin Rouge (quello di Baz Luhrmann), le soluzioni scenografiche di Intropido sovvertono volutamente le precise indicazioni goldoniane mettendo al centro della scena il casinò piuttosto che la bottega del titolo (rappresentata in maniera piuttosto anonima), rivelando a colpo d’occhio come la riduzione drammaturgica della Cavalli privilegi, quasi esclusivamente, i nuclei tematici del gioco d’azzardo e delle implicazioni etiche ad esso connesse. Accantonate le questioni “borghesi” care a Goldoni (il matrimonio, la scalata sociale, la reputazione: presenti all’appello ma solo per dare colore) la vicenda si trasforma in un frenetico carosello moralizzante dove, tra un lazzo e una canzone, si stigmatizza il “gioco con pecunia”, additandolo allo spettatore come il peccato originale da cui si irradiano i vari vizi (menzogna, lussuria, disonestà, ecc.).
E se le canzoni aggiunte potevano offrire un’occasione interessante per potenziali legami con l’attualità (si pensi alle proteste di ottobre sulle concessioni alle sale giochi presenti nella Legge di Stabilità 2015) anche qui si preferiscono i toni del disimpegno o, al massimo, del consiglio paternalistico. Tutto da copione: del resto il genio goldoniano non è certo ricordato per la sua ferocia satirica quanto per la divertente “normalità” dei suoi personaggi spesso trasformati in tipi ben riconoscibili. Ed è curiosa, in tal senso, la scelta della compagnia di MTM di adottare la versione toscana del testo (quella in cui sparivano le maschere di Brighella e Arlecchino) per poi puntare su una forzosa caratterizzazione linguistica (dallo slavo masticato di Trappola al finto accento francese di Flaminio/conte Leandro).
“Non preoccupatevi – sembrano suggerire gli attori – ciò che si perde in filologia si guadagna in vivacità!” E, in effetti, non si può dire che non ce la mettano tutta a cercar di strappar sorrisi al pubblico (menzione speciale al Don Marzio di Pietro de Pascalis puntuale nella battuta quanto nell’ambiguità del personaggio). Eppure l’effetto complessivo è un po’ quello che si prova di fronte a un cantante da piano bar: le note sono giuste, la tecnica (anche se un po’ troppo scolastica) non manca, eppure rimane tutto un po’ piatto. Come in certi talent. “Finchè lo vuoi seguire non ti disturberà” cantava qualcuno.
(foto di Roberto Rognoni)