In “La casa sul mare”, film n.20 del regista marsigliese, che ha radunato come sempre i suoi attori preferiti (Ariane Ascaride e Jean-Pierre Darroussin primi fra tutti), tre fratelli si riuniscono, nella “villa” della loro infanzia, per aiutare l’anziano padre colpito da un ictus. Il meeting familiare dapprima riapre ferite non chiuse e nostalgie non dimenticate, ma l’arrivo di tre piccoli sopravvissuti al viaggio di una barca di migranti, riporta tutti alla realtà. Li nasconderanno alla polizia ritrovando lo slancio verso quella solidarietà umana e politica che hanno sempre predicato. E che Guédiguian condivide
Ci sono tantissimi temi e almeno due film, quasi separati, distinti ma fortemente intrecciati, in La casa sul mare, opera numero venti, in oltre trentacinque anni di carriera registica del 64enne produttore, autore e sceneggiatore marsigliese Robert Guédiguian. Che ruota però comunque intorno al suo convincimento di fondo: l’uomo non può che vivere con e per gli altri, i suoi simili, e questo vale per le relazioni personali e per ciò che deriva dal rapporto che si ha con la realtà che ci circonda. Passato all’ultima Mostra del cinema di Venezia, esce ora nelle sale, e il Sindacato dei recensori italiani SNCCI lo elegge “Film della Critica” , avendo apprezzato come il regista si interroga “sul senso della memoria e sul proprio posto nella società… E la propria memoria, intesa come il proprio cinema, diventa memoria collettiva coniugando emozione, messaggio, speranza, nostalgia e utopia”. Non poco, decisamente.
Il racconto inizia col ritorno alla bellissima casa dell’infanzia (la Villa del titolo originale francese), con terrazzo sull’azzurrissima baia di Mejan, tra Marsiglia e Carry, nella zona della Calanques, di Angele (Ariane Ascaride, protagonista femminile di tutti, meno uno, i film del marito Guédiguian, bravissima come sempre e qui di solare malinconia) e Joseph (Jean-Pierre Darroussin, altro attore stabile, inseparabile nella compagnia del regista): i due fratelli raggiungono il terzo, Armand (Gérard Meylan), avvertiti da lui che il loro ormai anziano padre Maurice (Fred Ulysse) è stato colpito da un ictus che lo costringerà, ormai incosciente, sulla sedia a rotelle, lasciandogli poche possibilità di sopravvivere a lungo. Ascaride fa qui un po’ sé stessa, un’attrice di successo di cinema e teatro, che ritrova il suo villaggio di pescatori con il quale ha un rapporto insanabile di amore/odio, perché in quel braccio di mare vent’anni prima, anche a causa dell’incuria del genitore cui era affidata, la figlia Blanche è annegata. Joseph è un altro carattere inquieto, un professore impegnato, sardonico e depresso, che vive la fine di ogni sua utopia rivoluzionaria, l’incipiente vecchiaia segnalata dal fresco pensionamento e insieme la decadenza della sua ultima storia d’amore con la giovane Berangere (Anais Demoustier); il coscienzioso Armand, invece, l’unico rimasto al paese per gestire col padre vedovo il ristorante popolare di famiglia – e stargli anche vicino – rappresenta una positiva continuità sociale che però forse rasenta la conservazione, l’assenza di spirito d’avventura.
La reunion familiare, occasione per tracciare un bilancio esistenziale ma anche più prosaicamente di discutere come sarà divisa l’eredità di Maurice, riporta a galla un passato di cose non dette e ferite non rimarginate, e prospetta un presente che sa di chiusura di un’epoca, di una villa, di una famiglia insomma. Passato (è molto godibile un flashback, ripreso da uno dei primi film, del 1985, di Guédiguian, Ki Lo Sa?, che mostra i tre protagonisti, allora giovani, in un’allegra gita in auto all’aria aperta, lungo la costa, sulle note della più bella canzone d’amore della storia del pop, I Want You di Bob Dylan) e presente sono anche i tempi propri di questa prima parte del film. Sulla quale, a disegnare una finestra sul futuro, si innesta un arrivo imprevisto, che riporterà i tre fratelli ai loro ideali umani e politici che credevano di aver abbandonato. Sui monti sopra Mejan vengono infatti ritrovati tre giovanissimi migranti, all’apparenza gli unici reduci del naufragio di una imbarcazione che da lidi lontani li ha portati su quelle coste: verranno accolti nella “Villa” mettendo assai a rischio i tre fratelli, perché la polizia “invade” la cittadina a più riprese per cercarli (il governo Macron non c’era ancora, ma la linea anti-immigrazione era già chiaramente durissima). Stavolta, però, Angele, Armand e Joseph non rinunceranno alla loro missione umanitaria,
Il film intreccia poi anche altri temi, come con gli amori di Angèle per un giovane e gentile fan, Benjamin (Robinson Stévenin, figlio d’arte di Jean-François e Claire Stévenin), pescatore che recita a memoria Claudel e la fa sentire di nuovo giovane e di Berangere, che è in crisi con Joseph e intanto si concede al volitivo e un po’ freddo Yvan (Yann Trégouët), figlio di Martin (Jacques Boudet) e Suzanne (Geneviève Mnich), la coppia di anziani vicini di Maurice, gli ultimi rimasti, che saranno poi i veri protagonisti del toccante, civile, drammatico ma non tragico finale.
Siamo di fronte a una storia corale, con molti personaggi ricchi di senso, in cui l’accumulazione di spunti e suggestioni suggerisce quasi l’idea di una summa dell’opera di Guédiguian: perché se i guasti della paura dell’altro erano al centro di Le nevi del Kilimangiaro, il suo film “politico” più recente, qui tornano protagonisti l’accoglienza, il coraggio e la necessità di accordare la propria vita col prossimo. ritrovando il proprio posto, qui, ora. E ciò vale anche nella prima parte, quella più familiare, in cui i tre fratelli si ritrovano al capezzale del padre come fossero un’intera generazione costretta ad affrontare il lutto di un’epoca e l’avvento di un mondo inafferrabile, anche inaccettabile, in cui cambia anche la distanza tra genitori e figli. E riflettendo sui chi si era e chi si sarebbe potuti, voluti essere, si capisce un po’ meglio anche chi si è ora. La relazione speculare tra i tre protagonisti adulti e i tre piccoli profughi, che può apparire fin troppo “a tesi”, riporta al suo classico cinema, basato da sempre su un’etica della solidarietà “scelta contro tutto e tutti”, come rivendica puntualmente uno dei protagonisti di La villa.
La casa sul mare celebra di nuovo l’unione fertilissima tra il regista e i “suoi” attori, che si fanno perfetti interpreti dei suoi moti di disincanto, di un bilancio critico su una generazione (sua, di alcuni interpreti, anche mia, ahimè!) che ha ormai giocato le carte migliori, e non sempre vincendo. Così la grande classe popolare è incarnata dalle figure genitoriali, costrette all’immobilità o al suicidio, coscienze che si spengono, per ragioni anagrafiche ma non solo. Mentre una nazione intera pare aver perduto l’intenzione del volo, l’apertura al nuovo. Però Guédiguian, nel riconoscere la morte delle utopie rivoluzionarie, di una fraternité che manca al mondo attuale, ribalta poi l’aria mesta, di addio e disillusione che serpeggia soprattutto all’inizio del film, con l’irruzione, vero colpo di sceneggiatura e regia, del nuovo mondo che viene da un altrove spesso evocato. In una forma disperata, certamente, carica di sensi di colpa tutti a carico dell’Occidente, ma che imprime di colpo al racconto, in cui sembrava che il passato dei tre protagonisti non passasse mai (nel film e nella loro testa), un gusto più aperto al futuro, ai sentimenti. Per dirla con lo stesso Guediguian “Queste persone, che fuggono dalla povertà o dalla guerra, non bisogna chiedersi quanto ci costano, ma solo accoglierli: perché accogliere tutta la miseria del mondo servirà a rinnovare la nostra società. Altrimenti l’Occidente morirà soffocato dalla sua ricchezza. E quando gli uomini avranno pescato tutti i pesci, capiranno che i soldi non si possono mangiare”. E sarà, si potrebbe aggiungere, troppo tardi.