L’ultima serie di Netflix, da gustare in queste settimane casalinghe, è “The English Game”. Porta una firma illustre, Julian Fellowes, il creatore di “Downton Abbey”. E racconta la nascita del football nell’Inghilterra di fine 800, in particolare l’affermarsi, accanto alle squadre nobili dei college, dei team del Nord England e della Scozia, dove giocavano i lavoratori delle fabbriche. Un bell’affresco storico, una sapiente ricostruzione sociale e culturale, un ottimo modo di mostrare in tv una partita di calcio.
Millennials binge watching: in questo periodo il tempo sembra immobile e uno dei modi più comuni per ingannarlo è quello di divorare serie tv. Tra le varie piattaforme di streaming online, ormai, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta: la più comune e conosciuta è sicuramente Netflix, che dallo scorso marzo ha lanciato un nuovo gioiello made in UK, The English Game. Julian Fellowes, già creatore di un popolarissimo drama inglese come Downton Abbey (da riprendere nel caso in cui non lo conosceste), al suo esordio su Netflix non fallisce l’appuntamento raccontando una storia che vede protagonisti, nel ruolo di giocatori, Arthur Kinnaird e Fergus Suter, coinvolti nella nascita, o meglio nel primo sviluppo, dello sport più popolare al mondo, il calcio.
Sulla nascita di questo sport ci sono opinioni contrastanti: c’è chi sostiene che il calcio sia nato a Firenze nel medioevo, la FIFA addirittura riconosce il Cuju o Ts’u-Chü come uno dei primi antenati del pallone, risalente al III secolo A.C, un allenamento militare cinese che consisteva nel calciare la palla con i piedi in una porta formata da canne di bambù; e già allora l’uso delle mani non era consentito. Noi non ci vogliamo sbilanciare, va però riconosciuto che il calcio moderno, per come lo intendiamo ai giorni nostri, si è sviluppato proprio nei college inglesi nella seconda metà del 1800.
In quegli anni il calcio è uno sport per aristocratici, che non solo ne stabiliscono le regole ma compongono anche la Football Association (federazione calcistica inglese) che, almeno inizialmente, tentò di ostacolare la diffusione di questo sport tra le classi sociali meno abbienti e titolate. La nostra storia inizia nel 1879: Arthur Kinnaird, interpretato da Edward Holcroft (l’abbiamo visto al cinema nei due Kingsman), uno dei giocatori più popolari del panorama calcistico, capitano degli Old Etonians vincitori tre volte della famosa FA Cup, si gode il successo incontrastato della sua squadra. Ancora non sa, però, che il calcio sta prendendo piede in Scozia e nel nord dell’Inghilterra: nello specifico a Darwen, nel Lancashire, dove proprio due scozzesi, Fergus “Fergie” Suter e James “Jimmy” Love (rispettivamente Kevin Guthrie, già nel cast di Animali fantastici e dove trovarli, e James Harkness), sono appena approdati per portare il loro modo di giocare innovativo nella Darwen FC. È una squadra interamente composta dagli operai della fabbrica del paese, ed è appena riuscita incredibilmente a raggiungere i quarti di finale della FA Cup. Fino a quel momento nessuna compagine operaia aveva mai ottenuto un simile traguardo: ed è sperando in una storica impresa che James Walsh (Craig Parkinson), proprietario del team, decide di ingaggiare i due assi scozzesi per la grande sfida contro gli Old Etonians. Nella partita, la rivalità tra Fergus e Arthur si fa dura, nel senso più inglese riferito al calcio, ossia piuttosto fisica ma sempre sportiva, e prosegue in tutta la serie tratteggiando due personalità affini che, pur provenendo da background estremamente diversi, condividono un amore sfrenato per il football.
Proprio lo sviluppo ben riuscito dei personaggi principali è uno dei punti di forza della serie: Arthur, che inizialmente sembra essere l’ennesimo aristocratico autocelebrativo, dimostra invece grande sportività e apertura verso le squadre operaie e una spiccata sensibilità, non scontata considerando il periodo storico, nel rapporto con sua moglie. Fergus, dal canto suo, si fa portatore, quasi inconsciamente, della rivalsa popolare: ma nella sua voglia di affermarsi nel calcio c’è anche la volontà di sconfiggere i fantasmi di un’infanzia difficile, dovuta ad un padre alcolista che tuttora non gli lascia tregua.
Nel complesso la produzione, come spesso ci ha abituati Netflix con le sue serie originali, è di alto livello: la regia riesce a rappresentare al meglio le scene di calcio giocato, sequenze sempre spinose da girare, rendendo la visione scorrevole, piacevole e a tratti anche emozionante.
Gli spunti di riflessione sono molteplici, dalle disuguaglianze sociali, al tempo evidenti e spietate, alle dinamiche tra i rapporti umani, specialmente all’interno degli spogliatoi dove, a volte ancora oggi, si deve nascondere il lato di sé più sensibile.
Comparato al calcio di oggi, sul campo appare un altro sport: con due difensori e sei attaccanti sembra più simile al biliardino, tuttavia qualche confronto con la situazione attuale è possibile farlo. A distanza di più di un secolo, il calcio è tornato prepotentemente in mano ai ricchi, che pur non potendo (per ora) ridisegnarne le regole, fanno da padroni durante le campagne trasferimenti dei giocatori e spesso e volentieri nelle competizioni. Le squadre modeste, che vincono contro tutti i pronostici, sono sempre più rare, proprio per questa disparità economica: e proprio per questo le loro imprese sono considerate le più belle, basta pensare agli storici campionati vinti dal Leicester di Sir Claudio Ranieri nel 2016 e in Francia dal Montpellier nel 2012 (addirittura da neopromossa nella Ligue 1). Questi sono i trionfi che ci emozionano più di tutti, queste sono squadre per cui tutto il mondo ha tifato, seppure lontane o addirittura mai sentite: sono le volte in cui il Dio del calcio ci ha messo lo zampino, e The English Game racconta una di quelle.
P.S. Il consiglio è di guardare la serie in inglese, eventualmente sottotitolata, per cogliere a pieno le diversità linguistiche tra i protagonisti. Nella speranza (anche se per ora non ufficializzata) di poterli rivedere in una stagione n. 2.