All’Opera di Roma “La damnation de Faust” di Berlioz: il regista veneziano con la complicità di Gatti mette in scena un adolescente solo e depresso e un Mefistofele che agisce in presa diretta, con tanto di steadycam sul palco
Nata ibrida, anfibia, inclassificabile per volere del suo autore, La damnation de Faust di Hector Berlioz è una «légende dramatique», qualunque cosa questo voglia dire. Di certo non va pensata come semplice oratorio, ma non si può nemmeno dire che sia davvero un’opera, anche se lo è abbastanza per inaugurare la stagione dell’Opera di Roma, con Daniele Gatti sul podio e la suggestiva messinscena di Damiano Michieletto, che non tradisce mai le aspettative di far venire il nervoso a una parte del pubblico di qualsiasi teatro, ben prima di entrare in sala per vedere lo spettacolo.
Diciamolo subito: i fischi sono stati di gran lunga surclassati dalle approvazioni, come del resto quasi sempre accade, quindi facciamocene una ragione: Michieletto c’è e ci sarà sempre. E per fortuna. Ma se queste deliranti manifestazioni hanno il merito di riportare al centro dei dibattiti operistici il teatro, con t minuscola o maiuscola a piacere, dal punto di vista critico, o anche di semplice ricezione dello spettacolo, sono un problema. Mi spiego: se contano solo il dissenso e il consenso, intesi entrambi in senso assoluto, lo spettacolo vero e proprio precipita in secondo piano, col risultato che non se ne parla mai sul serio. Ed è un peccato, perché su questa Damnation ci sarebbero un sacco di cose da dire.
Quest’opera che non è un’opera ha bisogno di una drammaturgia ad hoc ogni volta che finisce su un palcoscenico, impresa non impossibile vista la sostanza musicale con cui Berlioz ha costruito la partitura, che rimanda continuamente a qualcosa: a una situazione specifica, o anche solo a un’immagine, a un sentimento. Insomma una musica che nasce apposta per descrivere: non più linguaggio puro e autosufficiente, alla tedesca, ma musica messa in moto da una fonte di energia letteraria, da un “programma” capace di farla reagire chimicamente. Il programma in questo caso arriva dal Faust, capolavoro di Goethe ma anche contenitore universale e inesauribile di ispirazione dal romanticismo in avanti, dispositivo di traduzione dell’umano al di là del tempo e dello spazio.
Va notato che rispetto alle versioni in lingua tedesca i Faust francesi sono un’altra cosa, perché evitano i giri a vuoto di «parole parole parole», come diceva il faustianissimo Amleto, in perfetto accordo con Mina. I Faust francesi sono piuttosto vittime del mal du siècle, alla René di Chateaubriand: sempre alla disperata e vana ricerca di un’identità, senza trascurare ovvie tendenze suicide. Così, nella Damnation, il punto di partenza non è tanto l’aspirazione all’infinito del dottore e nemmeno il patto col diavolo – addirittura rinviato fino all’ultimo –, quanto l’ennui, vale a dire quel misto di noia, nausea e vacuità esistenziale che ingarbuglia lo spirito del protagonista fin dalla prima scena.
Quindi non è un caso né un capriccio la decisione di Michieletto di mettere in scena un adolescente solo e depresso, per giunta bullizzato – durante la marcia ungherese: una delle scene migliori dello spettacolo e di conseguenza tra le più contestate. Solo che si tratta di un punto di partenza che poi si disperde in tante, forse troppe strade continuamente interrotte, lastricate di simboli psicanalitici, di sintomi, ma senza che si arrivi davvero a una diagnosi. Certo in questo tortuoso processo di annichilimento ci sono momenti di grande effetto, come la sosta artistica che omaggia l’Eden di Cranach il Vecchio, poi smantellato con un colpo di teatro durante la romanza di Marguerite, D’amour l’ardente flamme.
Fulcro della messinscena, come l’opera richiede, è senz’altro il personaggio di Méphistophélès, che dal ruolo di regista della nuova vita di Faust diventa vero e proprio capocomico, quasi conduttore sulla falsariga di un reality, in alcune scene mescolato all’avanspettacolo – vedi la taverna di Auerbach. Il diavolo di questa Damnation agisce in presa diretta, letteralmente, con steadycam sul palco con cui riproietta immagini, incubi e presagi di Faust su uno schermo al centro della bianca scena di Paolo Fantin, sovrastata dal coro inerte in metafisico stallo.
L’azione diventa così un ricco collage di invenzioni visive. Il livello è altissimo ma manca forse un nesso convincente che tenga tutto insieme, e il rischio è che lo spettacolo perda di coinvolgimento emotivo. Ferma restando la capacità dei cantanti di seguire ogni sfumatura voluta dal regista, con una recitazione da grandi attori. Su tutti Alex Esposito, istrionico satanasso in abito bianco – i costumi sono di Carla Teti –, acrobata della cinepresa, col volto che sembra fatto per irridere tanto Faust quanto il pubblico; Veronica Simeoni è una Marguerite sempre in rosso, oggetto del desiderio diabolico sull’orlo di una crisi di nervi; Pavel Černoch è un Faust iper-intimista, in sottrazione persino nella maestosa invocazione alla natura, dunque perfetto per la linea dello spettacolo; completa bene il cast Goran Jurić nella parte di Brander.
Quanto alla direzione di Daniele Gatti, è persino prodigiosa la tecnica con cui il direttore segue le dense, intricate e non del tutto razionali evoluzioni della partitura di Berlioz. Con implacabile analiticità, Gatti si fa strada nel demoniaco senza lasciarsi intimidire dai perturbanti sonori di ogni scena, né dagli insormontabili impasti timbrici, che domina con un controllo e una coerenza quasi esasperate. Se c’è qualcosa che forse manca alla sua esecuzione è il momento sintetico, un’incandescenza che permetta un passaggio più istintivo e meno cerebrale dalla buca al palco: non sempre il diavolo si nasconde nei dettagli, a meno che non si decida – e sarebbe più che legittimo – di rinunciare alla forma scenica per eseguire questa «légende dramatique» in forma di concerto.