Lui è un bravo poliziotto che indaga su un suicidio sospetto. Lei, moglie della vittima, donna bella e ambigua, una colpevole perfetta. Tra i due nasce un gioco di indagini e sentimenti, ombre e specchi che riflettono la realtà ma si lasciano sfuggire la verità. Lontano dal successo choc della “trilogia della vendetta”, il coreano Park Chon-wook sposa un cinema raffinato, allusivo, ironico. Insegue la vertigine, tra virtuosismi e ossessioni, divertendosi a giocare col pubblico: senza mai ingannarlo
Hae-joon è un poliziotto infelice, profondamente insoddisfatto della sua vita coniugale, ma capace di risolvere all’istante qualunque caso grazie a un fiuto da autentico segugio. Comincia a indagare su un caso di presunto suicidio, ma subito si convince che in realtà deve trattarsi di omicidio: la moglie cinese della vittima, Seo-rae, è una colpevole perfetta. Ma è anche una donna incantevole, bella e dolcissima: impossibile resistere al suo fascino. Inizia così un gioco sottile di seduzione che si dipana per le due ore del film come una magnifica ragnatela narrativa, un ricamo di emozioni, un gioco tra gatto e topo che si nutre di ambiguità senza rinunciare all’esibito bisogno di rivendicare il primato dei sentimenti. Nonostante tutto.
Dall’alto di un’algida montagna fin nell’abisso incandescente dell’amore non corrisposto (o forse fin troppo corrisposto), un melodramma tinto di noir messo in scena con impeccabile eleganza e un gusto beffardo per lo sberleffo e l’inganno. Un film costruito come un puzzle di immagini, un gioco di ombre, un incastro di specchi che riflettono all’infinito la realtà, o ciò che noi crediamo tale, e si lasciano inevitabilmente sfuggire la verità. Ammesso che da qualche parte esista davvero qualcosa che vale la pena di chiamare verità.
Gli eccessi da grandguignol che hanno reso famoso il coreano Park Chan-wook ai tempi della “Trilogia della vendetta” sono lontani anni luce da Decision to leave, intriso di cinema apollineo e splendente, enigmatico, fascinoso, romantico. Che lavora di sottrazione e insegue una sobrietà hitchcockiana. Anche i colpi di scena, le svolte a sorpresa, i bruschi cambi di tono e direzione, per due decenni una sorta di marchio di fabbrica di questo autore sempre interessante, a tratti ridondante, sembrano affacciarsi timidi sullo schermo, come timorosi di infrangere l’equilibrio della messa in scena. E così la violenza rimane fuori campo, si procede per indizi, allusioni, tocchi ironici, con un continuo cambio di punto di vista che conferisce alla narrazione un andamento piacevolmente sinuoso, un’inedita morbidezza. Cinema che insegue la vertigine, inanellando virtuosismi e ossessioni, e si diverte a giocare con lo spettatore, ma senza mai ingannarlo.
Decision to leave, di Park Chan-wook, con Hae-il Park, Wei Tang, Go Kyung-pyo, Yong-woo Park, Lee Jung-hyun