La tempesta non è mai stata così dolce: i lampi bagliori di lucciole, i tuoni tintinnii di carillon, il vento una ragazza che danza, la…
La tempesta non è mai stata così dolce: i lampi bagliori di lucciole, i tuoni tintinnii di carillon, il vento una ragazza che danza, la pioggia il battito delle mani della sala Strehler. Questa è la Tempesta di Alessandro Serra, in scena al Piccolo fino al 27 novembre.
Chi scrive ha avuto la fortuna di iniziare l’anno vedendo a Gennaio la Tempesta di Peter Brook a Venezia, e vedere undici mesi dopo lo stesso testo sacro di Shakespeare tramite gli occhi di Serra conferma che Shakespeare ancora stupisce, e che è ancora sorprendente quest’isola magica in cui dodici attori naufragano nei loro personaggi per un’ora e quarantacinque, che passa leggerissima e che arriva a commuovere.
L’estetica riconoscibile di Serra è protagonista insieme agli interpreti. A volte li sovrasta, li schiaccia col buio e coi tagli netti di luce, con la nebbia che circonda e divora – senza risparmiare nessuno – queste anime perse nel bosco.
È la magia dell’isola che prende il sopravvento sulla piccolezza umana. I colori sono freddi e l’elemento chiave della macchina scenica è il legno, materiale e strumento musicale, cassa di risonanza del cammino dei naufraghi confusi che cercano di sopravvivere.
In questo mondo oscuro non mancano la festa, la magia del teatro nel teatro, la gioia di scambiarsi i costumi, e di celebrare un nuovo amore, non manca il calore. Ma questo lo porta sulla scena soprattutto uno strabiliante Jared McNeill, nei panni di Calibano.
McNeill riempie la scena, anzi, la incendia: il suo Calibano sarà pure un mostro ma non può non conquistare con la sua forza e con il peso del suo dramma, con la sua semplicità. Una presenza scenica indistruttibile e una visione innovativa del personaggio che in questa versione non sarà mai solo un demone selvaggio.
Questo spettacolo così vivace e così pieno di elementi comici e momenti di ilarità, di incontri e affetto è in realtà un’intima dimostrazione dello strazio della solitudine, e dopo la pandemia questa condizione umana ha un nuovo peso, un nuovo valore, un nuovo immaginario comune. La solitudine è stata un paradossale evento di massa che ci ha accomunato tutti, dividendoci, ognuno nel suo isolamento. Con questa Tempesta Serra riflette sui meccanismi e sulle reazioni umane in risposta a un isolamento forzato.
Si assiste alla solitudine statica e abituale degli abitanti dell’isola, che ormai vivono con fatalismo: Prospero tradito dal fratello e cacciato da Milano, Miranda che non ha ricordi di una vita in società, Ariel in attesa della libertà, Calibano a cui è stato tolto tutto. E la solitudine improvvisa dei naufraghi: Ferdinando allontanato dal padre e convinto che sia morto, Alonso che a sua volta teme la morte del figlio, seguito dal fratello Sebastiano, che vuole ucciderlo per prendere il suo posto, Antonio fratello traditore di Prospero e il fedele Gonzalo unico ottimista, e Trinculo e Stefano, convinti di essere gli unici superstiti e di dover restare sull’isola per sempre.
La maledizione a cui è sottoposto il quartetto di nobili è l’incomunicabilità: sono in scena insieme, sono vicini, ma non si vedono, non si sentono, ognuno è costretto ad affrontare i propri rimorsi e la propria coscienza fino a quasi impazzire. I servi Stefano e Trinculo, per l’occasione partenopei, formano con Calibano un trio comico e vengono ingannati da Ariel che li mette l’uno contro l’altro e li fa perdere nelle zone più inospitali dell’isola, esasperando sempre di più la loro tensione.
E, poco a poco, l’isola non diventa un punto dove raggiungere l’unione ma da cui fuggire. E così Prospero dice addio all’isola, tornando a Milano per morire. Restano Calibano e Ariel, finalmente liberi. E soli.
Foto © Alessandro Serra