Dal celebre testo autobiografico della Duras alla grande prova della Thierry, che la impersona con passione, misura e intelligenza nel film di Emmanuel Finkiel. Che dimostra la sua riuscita sia nel riportare in vita l’ambigua, drammatica Parigi dell’occupazione nazista del ’44 e del dopoguerra, sia la paura, la sofferenza e il senso di colpa di una donna che aspetta il ritorno del marito: un compagno di battaglie che non ama (e forse non amava già più), deportato nel lager di Dachau
Nel giugno 1944 Parigi è sotto l’occupazione tedesca e Marguerite (Mélanie Thierry), protagonista di La douleur di Emmanuel Finkel, è una giovane scrittrice attiva nella resistenza insieme al marito Robert (Emmanuel Bourdieu). Quando lui viene arrestato dalla Gestapo e poi deportato, la protagonista tenta in ogni modo di salvarlo. Pur di avere qualche notizia, Marguerite si rivelerà pronta a tutto, anche a intrecciare un’ambigua relazione con Rabier (Benoît Magimel), un potente collaborazionista al soldo dei tedeschi e del governo di Vichy. In una sorta di gioco del gatto col topo, lui sembra invaghito della bella scrittrice e pronto ad aiutarla, ma forse sta solo cercando di carpirle preziose informazioni sul movimento clandestino antinazista.
Nell’agosto del 1944 Parigi verrà liberata ma per la protagonista sarà solo l’inizio di una nuova agonia, nell’attesa del ritorno dei deportati dai campi di concentramento. Un’attesa estenuante e colma di angoscia, ma anche di sensi di colpa, perché lei da tempo non ama più quell’uomo di cui attende con tanta impazienza il ritorno.
Un film doloroso e potente dove si intrecciano vari percorsi autobiografici. All’origine c’è infatti Il dolore di Marguerite Duras, un’opera autobiografica che la scrittrice francese aveva dato alle stampe negli anni 80 riesumando i testi di un diario tenuto fra il 1944 e il 1945, nella Parigi occupata dai nazisti e subito dopo la Liberazione, nell’angosciosa attesa del ritorno del marito Robert Antelme, importante figura della Resistenza, deportato in Germania nel campo di sterminio di Dachau.
Anche la scelta del regista e sceneggiatore Emmanuel Finkiel non è certo esente da risvolti autobiografici. Finkiel ha infatti dichiarato che nel libro della Duras si era imbattuto a vent’anni e ne era rimasto sconvolto: «Questa donna che attende il ritorno del marito dai campi di concentramento faceva eco alla figura di mio padre, una persona che aspettava sempre. Anche quando ebbe la certezza che la vita dei suoi genitori e di suo fratello era finita ad Auschwitz».
Da questo doppio movimento autobiografico prende vita un racconto struggente, dal passo lento e ipnotico, dotato di una straordinaria forza visiva e capace di raccontare fin nelle pieghe più inconfessabili il percorso di vita e di autoriflessione di una donna che esplora con impavida lucidità il dolore, la paura e la solitudine, ma anche il senso di colpa e persino il desiderio di seduzione. E rtutto questo grazie anche alla stupenda interpretazione di Mélanie Thierry, fragile guerriera dallo sguardo febbrile e magnetico.
Non è mai facile (spesso si è rivelato semplicemente impossibile) trarre un bel film da un bel libro. Finkiel è riuscito nell’impresa. Forse perché in questo racconto intimo di una donna che si guarda allo specchio e tenta di mettere a fuoco le proprie emozioni ha riconosciuto qualcosa di sé. E di noi tutti. Perché la letteratura e il cinema funzionano davvero quando riescono a diventare universali nel loro dire e nel loro immaginare, nel farsi voce, parola e immagine.
La douleur di Emmanuel Finkiel, con Mélanie Thierry, Benoît Magimel, Benjamin Biolay, Shulamit Adar, Grégoire Leprince-Ringuet, Emmanuel Bourdieu