Giuliana Musso e il suo doloroso spettacolo nato nelle parrocchie “furlane” dove vige la regola della “castrazione”: non toccare, non toccarsi, non farsi toccare
Tre fratelli (in Cristo) e la ragazza di Trieste (e aree limitrofe). Dopo il sold-out della scorsa stagione torna a ricevere applausi milanesi Giuliana Musso, l’attrice-autrice che scrive e recita in un esuberante furlo-italiano; torna con il più coinvolgente dei suoi monologhi, La fabbrica dei preti, summa esistenziale della generazione dei sacerdoti che si sono formati in seminario negli anni ’50 e che oggi hanno spento almeno ottanta candeline.
Sul palco offre voce e corpo a tre storie emblematiche, a tre bilanci umani tra biografia privata e documento antropologico. La drammaturgia attinge alle pagine autobiografiche in lingua friulana di Don Pierantonio Bellina integrandole con numerose interviste personali della stessa Musso insieme al suo storico collaboratore Massimo Somaglino a un’infinità di anziani preti veneti, friulani ed emiliani che hanno vissuto e si sono formati nei seminari cattolici dell’età del nostro boom nazionale, nell’epoca del pre-concilio.
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Assurdi e paradossali aneddoti, eventi, emozioni, desideri, rivolte e intimi silenzi sono restituiti in parole di sovente comiche; ferite dritte al cuore che lasciano incredula la mente. “A me, quello che mi è mancato, e di cui li accuso, è il rapporto con il mondo femminile, con il cuore e la mente delle donne. Lo capite di cosa sto parlando quando dico il cuore e la mente delle donne. O sembro un vecchio matto?”.
Perché il primo dei problemi era e restava la castrazione di ogni istinto sessuale secondo “la sacra regola del tridente”: non toccare, non toccarsi, non farsi toccare. Mai e poi mai un corpo uguale al tuo e soprattutto mai toccare il corpo femminile secondo la concezione clericale per cui la donna restava l’essere miticamente astratto, barriera inconciliabile tra l’uomo e Dio, fisicamente pari a un bovino da sezionare in parti buoni e parti no. Modello di riferimento educativo che ha lasciato individui devastati, affettivamente schizofrenici tra una dimensione umana e una devozionale: “Non mi sono fatto prete per essere prete, ma per amare. Tutti, tutti”.
Però attenzione: l’intento della Musso non è la denuncia o la difesa di una istituzione formativa repressiva, lei cerca di capire intimamente e di restituire i percorsi di un fenomeno specifico di didattica/apprendimento in uno specifico periodo storico quando si è passati dalla messa in latino a quella in italiano, dalla tonaca al clergyman. Per questo ricorre in scena a fotografie in B/N e a video che puntualmente contestualizzano le sue tre storie giocate sapientemente tra la poesia delle immagini e le note delle canzoni d’autore.
Come a farci toccare de visu e a portarci a capire i motivi per i quali anche la nostra storia personale, i nostri criteri morali, le nostre intransigenze, contraddizioni e idee su generi e ruoli, scelte e desideri affettivi e sessuali vivono di quelle stesse radici e di quella stessa linfa. Mica dobbiamo subire scherzi da prete.
La fabbrica dei preti, al teatro dell’Elfo fino al 19 gennaio 2015