Sullo sfondo di un Meridione in disfacimento, Nicola Lagioia allestisce un noir che racconta fragilità e bassezze di una famiglia borghese fino a un possibile riscatto
«Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo» scriveva oltre un secolo fa Lev Tolstoj. In La ferocia, parabola di un declino, Nicola Lagioia sembra far proprio il celebre incipit assolutizzandolo nelle vicende dell’ingegnere Salvemini e della famiglia che brilla del riflesso della sua spregiudicatezza imprenditoriale.
Sullo sfondo di un Meridione che vediamo disfarsi sotto complessi residenziali e cadaveri della fauna locale, la morte dell’inquieta Clara, trovata nuda ai piedi di un autosilos, riunisce nel lutto gli esponenti di questo nucleo disperso dietro carriere che malcelano un più profondo rifiuto per il nido: la studentessa svogliata Gioia e l’affermato oncologo Ruggero, figli legittimi di Vittorio e Annamaria, ma soprattutto il fratellastro Michele, da anni emigrato a Roma ma legato da un rapporto viscerale alla sorella defunta.
Nell’impalcatura del noir sarà proprio lui a dipanare la matassa di una verità che fa acqua da tutte le parti, scavando nel passato. Ma la sua prospettiva si impone come dominante solo nel momento risolutivo della parte finale – per ricucire i fili di una storia filtrata dalle molteplici e spesso incoerenti prospettive di tutti coloro che, anche solo per un momento, hanno allacciato le loro vite a quella di Clara.
L’indagine privata di Michele non è che l’espediente per mettere a nudo fragilità e bassezze di una famiglia borghese che assurge a emblema dei mali della classe sociale a cui appartiene e del Sud nel suo insieme, senza mai tuttavia perdere di vista il fulcro narrativo ultimo rappresentato dall’essere umano in sé, nella duplice natura di carnefice e vittima.
«Tutta la sua vita era stata una crescita equipollente di fortuna e minaccia. Non capiva se fosse un aspetto legato alla natura dei singoli uomini o a quella degli affari in generale, la cui anima sarebbe allora davvero somigliata al piccolo demone che si scorge ogni tanto sulla facciata delle banche nei giorni di sole accecante».
Come attraverso quelle macchine fotografiche che consentono di sovrapporre più scatti, Lagioia stratifica il suo romanzo su tre dimensioni principali: quella umana, appunto, quella politico-sociale, e quella paesaggistico-naturale. Il fil rouge che le tiene saldamente insieme è proprio la ferocia, intesa non tanto nell’accezione convenzionalmente dispregiativa che si è soliti attribuire al termine, ma recuperandone un’etimologia prossima al latino fera, “bestia”.
Di animali a popolare il romanzo in effetti ce ne sono tanti, da quelli domestici a quelli che abitano la natura circostante, fino a quelli simbolicamente rappresentati in opere d’arte. Il parallelismo costante tra le due realtà innesta un meccanismo di associazioni in virtù del quale persino le dinamiche contorte della corruzione e del malaffare si circoscrivono all’interno di quell’unica legge di natura che è l’istinto di sopravvivenza, stemperando la loro assurdità nel principio di necessità.
La ferocia è dunque sì quella «con cui al Sud si sente il bisogno di affermare se stessi persino attraverso il riconoscimento dei meriti altrui», ma è anche quella di Annamaria che accetta con freddezza il tradimento pur di mantenere il proprio status e che paventa lo scandalo finanziario come l’ingresso del suo mondo «in un cono d’ombra dentro il quale le vecchie leggi non valevano più», o ancora quella di Gioia che gioca e inventa i profili social della sorella morta; diverse declinazioni del tenersi in piedi mentre tutto crolla.
La ferocia è tante cose, ma non un romanzo moralista, né un saggio sociologico. In esso la borghesia del Meridione viene ritratta per quello che è, senza intenti stigmatizzanti, come campionario umano al quale attingere. Dalla cornice deleteria di casa Salvemini emergono infatti Clara e Michele, vittime l’una dell’odio per il proprio mondo e dell’amore eccessivo per il fratello, l’altro di una personalità borderline e della totale mancanza di punti di riferimento in una famiglia, una realtà che – a eccezione della sorella – non lo accolgono.
È qui che nella cornice del noir si innesta il romanzo di formazione, in cui il ragazzino alienato e quello che di lui resta nell’intellettuale defilato riescono ad aprire una breccia nel circolo vizioso, esorcizzando i demoni del passato nello spirito guida della sorella.
«[…] poiché noi non siamo noi, penserà lui tossendo, siamo guidati da forze di cui non siamo consapevoli, agiamo senza sapere perché, diciamo cose il cui movente è ignoto, crimini senza colpa e morti senza causa apparente».
Ma alla fine, in un modo o nell’altro, abbiamo sempre il potere di riscattare noi stessi. Ecco ciò che rende La ferocia una bellissima prova letteraria, che tanto deve ai suoi modelli – si è spesso citato in proposito I Buddenbrook di Thomas Mann – e altrettanto restituisce di originale alla narrativa italiana contemporanea.
“La ferocia” di Nicola Lagioia (Einaudi, pp. 418, 19,50 euro)