Al Teatro Carcano fino al 3 dicembre si accentua il gioco della farsa nel capolavoro di Gogol, satira acuta e feroce dell’individuo e della società
Cos’è il potere se non la rappresentazione di se stesso? Meglio, la sua parodia? La satira di Gogol lo sintetizza fin dal 1836, ma bastano davvero poche battute per riconoscere l’atemporalità che al Teatro Carcano va in scena come la profonda provincia russa del XIX secolo. Nella sua versione, Leo Muscato – che firma la regia – sceglie l’aderenza al testo (e al con-testo) con abbondanza di pellicce e pellicciotti, colbacchi e stivali, neve e contorni di case perse nelle nebbie della Siberia.
Note di colore che contribuiscono a rendere immediatamente leggibile la levità di una commedia che – tuttavia – porta con sé diversi piani di lettura e suggestioni tutt’altro che leggere. In questa fonda provincia dell’impero, dove il solo timore dell’arrivo di un’autorità statale – l’ispettore generale, appunto – a valutare la vita del distretto, sconvolge tutti i – distorti equilibri calcificati dal tempo e dall’abitudine. In cui le aule di tribunale sono diventate stalle, e negli ospedali si offrono pranzi ai dignitari di passaggio (o presunti tali) avendo avuto cura di eliminare, preventivamente, chiunque avrebbe potuto essere un paziente.
Un espediente a partire dal quale si può decodificare, innanzitutto, la satira politica in senso puro. Non c’è – né, si suggerisce tra le righe – ci può essere – alcuna fiducia nell’autorità. Sia essa l’emanazione di un potere nazionale fisicamente – e dunque dal punto di vista simbolico – lontano sideralmente, le cui emanazioni sono entità tanto identiche dalle persone comuni, soprattutto nei loro istinti peggiori, da poter essere facilmente confuse senza che nessuno ne sia sorpreso. Persino, l’emanazione del potere più elevato è tanto simile a quello locale da fraternizzare con lui, nei suoi aspetti più biechi. A cambiare, tutt’al più, è la magniloquenza delle promesse, l’enormità delle panzane di cui convincere chi si crede più furbo senza alcuno sforzo. E mentre si sorride dell’ironia sull’indolenza degli impiegati statali, che non conoscono cambiamenti nel tempo e nelle geografie, si osservano la corruzione e la il servilismo diventare moneta corrente tanto da non essere più nemmeno visibile.
C’è, però – ed è forse la componente più interessante – la messa in evidenza delle meschinità personali, di cui il decadimento della convivenza sociale è solo l’esito. Il disperante provincialismo sospende immediatamente la propria incredulità di fronte al solo profumo di un’ideale di grande città inesistente. L’odio latente che la semplice evocazione di quest’ideale fa esplodere, persino tra una madre e una figlia, pronte forse anche a rinnegarsi a vicenda.
La sostanziale falsità dei sentimenti reciproci, e quindi la labilità della tenuta della società nel suo insieme, di fronte alla possibilità di un’alternativa. Non c’è morale, non c’è lealtà. Basta una lieve pressione sulla prima tessera del domino perché l’essere umano – coperto di pelo – diventi forse qualcosa di peggio del lupo, che pure conosce per istinto una forma di tutela di branco. Basta un’illusione alimentata da un gioco di fraintendimenti per scatenare una guerra tutti contro tutti che non conosce fine neanche quando l’inganno viene svelato. Occorrerà sempre un capro espiatorio su cui dare la colpa di aver fatto il primo passo.
In un contesto in cui delazione e ipocrisia sono il cemento su cui si costruiscono i rapporti, torna d’attualità l’archetipo del servo furbo. Solo chi ha meno da perdere, in realtà, conserva la capacità di leggere davvero la meschinità della sfilata di maschere che gli si parano davanti, e servirsene a proprio vantaggio. Ognuno inganna credendosi migliore e più abile degli altri a fare il doppio gioco, non rendendosi conto di essere, a propria volta, una macchietta fatta e finita.
E la messa in scena – e il suo drammaturgo – diventa elemento scenico: se l’ipocrisia, ovvero la finzione, fa l’attore – l’etimologia del termine suona “colui che sa ingannare” – è naturale che il personaggio dialoghi col proprio autore.
Un’altra delle chiavi possibili: siamo – tutti, nel nostro presunto piccolo potere – sul palcoscenico dell’opera buffa di cui solo noi non ci rendiamo conto di essere patetici protagonisti, esposti al ludibrio dello spettatore così come di chiunque incontriamo. Il testo gogoliano non fa prigionieri: la farsa è un destino ineluttabile, perché è impossibile rinunciare all’illusione e quindi esporsi all’inganno.
In questa messa in scena, l’ironia beffarda del testo gogoliano è infatti scoperta. La numerosa compagnia guidata da Rocco Papaleo sorprendentemente misurato nelle vesti di un podestà da operetta, insiste molto sulla parodia. Forse anche per questo, a spiccare è soprattutto il ruolo che grottesco dovrebbe essere per definizione. Il title role (o presunto tale, giacchè si sta parlando della più classica commedia degli equivoci e dei fraintendimenti) affidato a un Daniele Marmi che si prende il ruolo di protagonista a dispetto della locandina e convince senza dubbi, facendo del prototipo del caratterista (con il suo corredo di voce sempre in falsetto e ubriachezze moleste) un esercizio tecnico riuscito.
Il resto della compagnia, composta anche da interpreti di solida carriera – in ordine alfabetico: Elena Aimone, Giulio Baraldi, Letizia Bravi, Marco Brinzi, Michele Cipriani, Salvatore Cutrì, Marta Dalla Via, Gennaro Di Biase, Marco Gobetti, Michele Schiano Di Cola, Marco Vergani – , paga lo scotto di aver voluto – con mestiere – divertire giocando con elementi riconoscibili, che riescono a tenere insieme l’inusuale abbondanza, di questi tempi, di dozzina di interpreti in scena; lo si fa con partiture fisiche accuratamente pensate ed espedienti evocativi di comicità senza tempo capaci di funzionare adesso come ai tempi del cinema muto. Si ride, in una serata di teatro col merito di essere indiscutibilmente per tutti. Sperando che tutti possano cogliere ciascuna delle possibili letture perché, come Gogol spiega in explicit con la voce del podestà, tra una risata e l’altra “è di voi, che ridete”.