«La gioia scioglie nodi. Non la chiudi sotto il tappo di un barattolo. Ma è un patto. Con la vita. Quello di decidere che sia la tua strada». Questo il monito di Delbono in scena al Piccolo tra fatti di cronaca, racconti tra biografia e auto-biografia e il ricordo di Bobò.
Questo spettacolo rinasce dopo la scomparsa di Bobò. Così Pippo Delbono apre la ripresa del “suo” spettacolo La gioia prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione e coprodotto da Thèâtre de Liège, Le Manège Maubeuge – Scène Nationale.
All’anagrafe Vincenzo Cannavacciuolo, Bobò è stato l’attore che Pippo Delbono attraverso il suo fare teatro ha tolto nel 1995 dalla prigionia del manicomio di Aversa. Da quel momento ne ha fatto il suo alter ego. Lo spettacolo diventa così l’occasione per celebrare e raccontare sprazzi di vicissitudini autobiografiche e biografiche, per ripercorrere con ironia e divertissement decenni di spettacoli e di aneddoti della vita dentro e fuori la scena condivisi da Delbono con i suoi attori.
Il ricordare con sorriso e gioia diventa il fil rouge per celebrare e per cercare di far vivere e suscitare anche e soprattutto negli spettatori quel desiderio di emozione primaria che non potrebbe esistere se non raffrontata con il dolore. Scegliere di essere gioiosi nonostante tutto è un patto che si decide con la vita. Un sentimento che non va pensato, che non va chiuso sotto il tappo di un barattolo, ma che si sente. «Devi decidere che la gioia è la strada della tua vita chè la gioia scioglie i nodi» è il monito che tra palco e platea lancia l’attore ligure insieme ai suoi attori che ballano, agiscono, imitano canzoni con la mimica e vivono con lui sulle assi del palcoscenico e in mezzo alla vita.
In quei nodi e in quel nonostante tutto ci sono le perdite delle persone che amiamo o abbiamo amato che non se ne vanno mai perché in fondo sono sempre da qualche parte vicine a noi, c’è la lotta con un sentimento come la tristezza che ti può gettare in un nero senza via d’uscita, c’è la battaglia con le immagini create dalla propria mente padroneggiata da paure, ossessioni e a tratti follia, ci sono le storie di immigrati e rifugiati e le storie tristi di cronaca. Il Mar Mediterraneo evocato con ammassi di vestiti accumulati – metafora di vite umane spezzate – non resteranno sole se ci si ricorda di rispettarle e onorarle almeno con una preghiera. Al posto di indumenti sparsi e accatastati c’è il tempo di spargere petali di fiori. Nel mentre la voce di Delbono scalda e commuove mentre intona un’invocazione sulla falsariga del Padre Nostro («mare nostro che non stai in cielo, benedetto sia il tuo sale»).
Gioire non significa fare finta che tutto vada bene, ma immergersi in una sorta di amore alto e divino che contempli e osservi l’esistenza nel suo manifestarsi. Con un rito, con un pensiero, con il silenzio, con un sentimento meditativo. Accettare il dolore è inevitabile, ma visto che i momenti difficili ci sono e ci saranno tanto vale inocularsi buoni sentimenti perché al posto del buio fiorisca la vita.
L’allestimento di Pippo Delbono permeato da gabbie, luci, palcoscenico vuoto, barchette di carta, sacchi e indumenti colorati, composizioni floreali ( di Thierry Boutemy ) diventa allora una sorta di rituale ( e che cosa è il teatro se non un rito che nasce religioso e continua politico nel senso più profondo del concetto greco di polis? ). Un viaggio catartico, a tratto ironico, dove gli aneddoti e le storie degli attori che Delbono ha incontrato, voluto e salvato si mischiano con l’omaggio al mondo del circo, al varietà e alla cinematografia impersonata da Totò.
Preghiera del clown, assolo del Principe De Curtis ( un cult tratto dal film Il più comico spettacolo del mondo diretto da Mario Mattoli), racchiude il senso dello spettacolo apertosi con l’omaggio a Bobò e la stilizzazione di un prato fiorito da cui nascono come per magia e incanto fiori perché qualcuno li annaffia con amore, prendendosene cura. Gli elementi della clownerie, i gesti assurdi, un trapezio che vola, il retaggio di un tendone che appare e scompare diventa la metafora di un effimero esistente come lo spettacolo dal vivo per esempio e come in fondo – va da sé – la vita.
E allora la luce su un porto – fosse anche quella di un attore un po’ matto come l’arcano dei Tarocchi che porta con sé caos originario, creatività, innocenza, follia, coraggio – si trasforma in un trapezio. Quell’arte aerea che potrebbe permettere un volo e un lancio in alto in sicurezza e protezione perché le mani di un uomo tengono ( o dovrebbero tenere) le mani di un altro uomo perché non cada. Ma tra l’osservazione di un’arte e la voglia di esercitarla c’è di mezzo la paura che crea blocchi e nodi. A noi sta sciogliergli immergendoci in un tutto gioioso e più umano.
Pippo Delbono, mattatore interagisce, guida il suo “carrozzone”, parla seduto dalla platea, sale in scena, si chiude nelle sue gabbie e libera quelle delle altre, “medica” sé stesso con ironia, distorce la voce e con lirismo poetico, nostalgico, clownesco porta i suoi attori e il pubblico in un viaggio dove quello che cambia alla fine è lo stato di energia. Un’immersione a contrasto tra due poli, due colori, due stati, due principi che non possono che coesistere. Una lotta cosmica da sempre presente che sta a noi condurre per arrivare a un equilibrio armonioso. E se possibile, perché non impossibile, vitale.
Immagine di copertina © Luca Del Pia