“Una donna promettente” dell’esordiente regista-sceneggiatrice Emerald Fennell è diventato un film bandiera dell’era #MeToo. La brava Carey Mulligan si finge sbronza o poco lucida per dimostrare quanto spesso gli uomini approfittino fisicamente e psicologicamente di questa situazione per ottenere la soddisfazione dei loro desideri sessuali. In situazioni che rasentano lo stupro. Ma il film, che affronta un problema enorme, appare rozzo come thriller e a tratti un po’ manicheo
Cassie (Carey Mulligan) era una promettente studentessa in medicina, una giovane donna felice, entusiasta e fiduciosa nel prossimo. È diventata una trentenne senza futuro, che lavora svogliata in una caffetteria e passa le notti in giro per locali, a sbronzarsi e rimorchiare sconosciuti. In apparenza. Lei in realtà non si sbronza affatto: finge di perdere il controllo, ma in effetti rimane del tutto sobria, vigile e accorta. Il suo obiettivo è semplicemente quello di dimostrare che se una donna non ti dice no, perché è ubriaca, addormentata o svenuta, tu non puoi prendere per buona la sua arrendevolezza, e intendere il suo silenzio come un assenso. Insomma, non vuol dire che ci sta, ma soltanto che è momentaneamente incapace di intendere e volere.
Cassie porta dunque avanti una battaglia ben precisa, politica e femminista, che trae la sua origine non da una presa di posizione ideologica, ma da un trauma che ha sconvolto la sua vita, dividendola in un prima e un dopo, e cambiando il suo destino: da vittima a vendicatrice. E Una donna promettente di Emerald Fennell è un film che tiene insieme atmosfere thriller e discorso politico, disegno psicologico dei personaggi e concatenazione di colpi di scena, bisogno di verità e ricostruzione ad effetto del mondo come un sistema di potere dove la cultura dello stupro è dominante e alle donne non restano molte strade da percorrere, tra la passiva accettazione di un maschilismo pervasivo e la rabbia distruttiva che non perdona e non accetta compromessi. Costi quel che costi.
Il film è diventato un caso, esaltato come esemplare e coraggioso, capace di raccontare ciò che di solito si preferisce nascondere, omettere, spazzare come polvere sotto il tappeto. Ha avuto critiche entusiastiche e scatenato polemiche virali, scomodando sensi di colpa collettivi e suscitando prese di posizione forti e totalmente avulse dal suo contenuto cinematografico. Ricordiamo che il critico di Variety, Dennis Harvey, è stato accusato di sessismo per aver osato dire che Carey Muligan sembrava una “scelta un po’ curiosa” nei panni di una femme fatale, e che nel ruolo sarebbe forse stata più adatta Margot Robbie, che del film è invece produttrice. Un giudizio di ben scarso spessore critico, siamo perfettamente d’accordo.
Ma la generale levata di scudi a difesa del lavoro dell’esordiente regista-sceneggiatrice Emerald Fennell (co-autrice di Killing Eve, oltre che volto di Camilla Parker-Bowles nelle due ultime stagioni di The Crown) lascia in effetti un po’ perplessi. Perché questo thriller dell’epoca del #MeToo incarna alla perfezione un certo modo ideologico di affrontare problemi serissimi senza offrire una nuova visione del mondo, e senza scardinare neanche un po’ i più pigri e ripetitivi meccanismi del pensiero maschilista e paternalista. Cassie, così debole e fragile e bambina, incapace di una relazione in qualche modo adulta con il mondo, si presenta come il riflesso perfetto di un mondo maschile altrettanto immobile nel suo atteggiamento violento e predatorio. Lo stupro diventa così simbolicamente una colpa collettiva, da cui nessuno è in grado di salvarsi. Né gli uomini, cattivi a prescindere, né le donne, vittime da sempre e per sempre.
Una visione del mondo che potrebbe anche essere utilmente provocatoria, se non fosse calata dentro un thriller piuttosto rozzo, privo di sfumature psicologiche, che procede baldanzoso verso un finale manicheo e vagamente cristologico che personalmente non riesco a trovare di particolare utilità per la causa della liberazione degli esseri umani (donne e uomini) dalle tante catene che li costringono a ruoli non scelti, non voluti e dolorosamente determinati dall’esterno. Sì, Carey Mulligan è bravissima, ma non basta.
Una donna promettente, di Emerald Fennell, con Carey Mulligan, Bo Burnham, Laverne Cox, Clancy Brown, Jennifer Coolidge.