Al Museo del Novecento, una mostra esemplare racconta la parabola, ricca di contraddizioni, di Mario Sironi.
È il 25 aprile del 1945. Mario Sironi con il suo cane è per strada. Il suo mondo è crollato. Il fascismo è finito, l’Italia è un cumulo di macerie dopo anni di guerra e bombardamenti. Si imbatte in un posto di blocco delle brigate Garibaldi, i partigiani più numerosi e attivi, di fede comunista e socialista. Non è epoca di processi, i partigiani stanno rastrellando fascisti, repubblichini, collaboratori. L’esito dell’incontro è scontato: il pittore verrà fucilato. Ma a capo di quel gruppo è Gianni Rodari, venticinquenne e non ancora il poeta e narratore di favole che tanto influenzerà la cultura italiana del dopoguerra. Lo riconosce, è un suo estimatore. Lo grazia e gli fornisce un lasciapassare.
Questo drammatico episodio è paradigmatico della vicenda artistica e umana di Mario Sironi, una vicenda narrata attraverso una scelta di 120 opere tra dipinti, disegni, bozzetti, chine, manifesti, presenti al Museo del Novecento di Milano nella mostra Mario Sironi. Sintesi e grandiosità a cura di Elena Pontiggia e Anna Maria Montaldo.
“Sintesi: azione drammatica, una concisione tacitiana che infonde nel linguaggio una ideale grandiosità” scrive Elena Pontiggia nel bel saggio che accompagna il catalogo (sue anche le schede delle singole opere) pubblicato dalla casa editrice Ilisso. Grandiosità certamente e non tanto e non solo nelle sue opere monumentali. Sironi, sempre secondo la Pontiggia, è “grandioso” anche in alcuni dipinti come Nudo e Albero del 1931 che misura 80 x 70 cm.
Ma Sironi è capace di sintesi non soltanto nel senso che descrive la curatrice ma anche perché è stato capace di attraversare le diverse correnti artistiche di inizio secolo: dal simbolismo delle sue opere giovanili ai periodi futurista e metafisico mantenendo però una cifra personalissima e assolutamente inconfondibile.
Nato nel 1885 a Sassari da genitori lombardi e trasferitosi immediatamente a Roma, comincia a studiare ingegneria, facoltà che abbandona per una crisi depressiva (un male che lo tormenterà periodicamente per tutta la vita).
Si iscrive alla Scuola Libera del Nudo di via di Ripetta e comincia la sua carriera di artista: una carriera composita, sarà illustratore, architetto, scenografo… Qui conosce Boccioni, Severini, Balla. Poi Carrà la cui amicizia sarà molto influente in diverse scelte degli anni successivi.
Allo scoppia della guerra, nel 1915, si arruola nel battaglione Volontari Ciclisti (lo stesso in cui Boccioni perderà la vita). Alla fine della guerra si trasferisce a Milano dove vivrà, con poche eccezioni, per il resto della sua vita.
Già dal 1913 si era accostato al Futurismo ma al suo arrivo a Milano, pur partecipando alla Grande Esposizione Futurista del 1919, progressivamente se ne allontana.
Aderisce entusiasticamente al fascismo ma vivendolo in una maniera tutta personale. Quando a Milano comincerà a dipingere le periferie urbane – che diventeranno un tratto imprescindibile della sua poetica e lo faranno accostare ai motivi metafisici – lo fa senza enfasi, anzi.
“Le case metafisiche dei proletari milanesi” dirà dei suoi paesaggi urbani, profondendo nella sua arte la sua personale, e spesso tormentata, esperienza unita a una drammaticità poco spendibile dalla squillante propaganda ufficiale.
Sironi è persona troppo colta, la sua formazione poliedrica (ha studiato anche musica e ama, ovviamente verrebbe da aggiungere, Wagner) e la sua sensibilità lo mettono al riparo da una espressione troppo compiaciuta e roboante del movimento politico cui aderisce.
Dall’incontro con Margherita Sarfatti, la grande promotrice dell’arte italiana durante il fascismo, scaturisce la fondazione del movimento del Novecento Italiano, con Bucci, Dudreville, Funi, Oppi, Malerba e Marussig; artisti che, ognuno con il suo metodo, sono troppo caratterizzati per dare vita a un Realismo Fascista che faccia eco agli analoghi realismi nazionalsocialista e socialista. Di questo movimento Sironi è certamente la figura di punta, anche come teorico.
Nel 1925 visita Parigi e rimane coinvolto dal clima d’avanguardia che si respira nella capitale francese. Dal 1926 al 1932 partecipa alla Biennale di Venezia dove viene invitato anche nel 1934 e 1936 senza però inviare alcuna opera.
Sono anni in cui Sironi sta maturando una concezione dell’arte molto personale. Dopo un periodo che si potrebbe definire “espressionista”, l’artista comincia a elaborare un pensiero più radicale: sogna un sistema dell’arte in cui non vi siano né mostre né mercato. Il suo fascismo – suggeriscono le curatrici – è quasi di stampo bolscevico.
Sironi immagina un’arte al servizio del popolo, statalista, fruibile da tutti, grazie a grandi opere ad affresco, mosaico, vetrate. Sebbene questa svolta non piaccia alla parte più fascista del regime (tra tutte le critiche che riceve basta citare quella aspra di Farinacci) la sua ostinazione fa passare i suoi progetti.
Tra il 1930 e il 1942 Sironi lavora – spesso a ritmi massacranti – a grandi opere monumentali. Dal Palazzo delle Poste a Bergamo, alla Sapienza di Roma, al Palazzo di Giustizia e alla sede del Popolo d’Italia (oggi Palazzo dell’Informazione) di Milano, al Palazzo Liviano di Padova. Lavora a stretto contatto con i maggiori architetti del decennio: Muzio, Piacentini, Terragni, Gio Ponti.
È di questi anni la definizione di pittore architetto (o pittore scultore). Intanto, con estrema coerenza, continua la sua ostilità per le mostre e quelle a cui partecipa espongono quadri di mercanti e collezionisti.
Nel 1943 il fascismo finisce. Dopo la drammatica vicenda narrata all’inizio, un’altra tragedia si abbatte sull’artista. Nel 1948 la figlia Rossana, a diciotto anni, si suicida.
Comincia per Sironi un periodo in cui – obbligato dalle mutate circostanze – deve tornare alla pittura da cavalletto. Continua a rifiutare le mostre, comprese le Biennali in cui viene regolarmente invitato, e non si accosta alla corrente informale sebbene le sue pitture diventino sempre più pastose e astratte (Michel Tapié lo inserisce comunque nel suo fondamentale saggio Un art autre del 1952).
I quadri si fanno sempre più cupi, disperati. Anche i titoli: Debout les morts! (In piedi i morti!) del 1958, Il mio funerale del 1960 e L’ultimo quadro del 1961. Anno in cui muore.
Il critico Jean Clair ha scritto nel 2008 che le sue opere di questi anni “evocano dei cimiteri. Si vedono forme umane dentro a cripte o a tombe che le rinchiudono. Sono prigioni, sono sepolcri in cui gli esseri umani sono costretti all’immobilità e sembrano mummie. Questa specie di immenso sepolcro… è il testamento spirituale di Sironi”.
Immagine di copertina: Mario Sironi, Composizione (Cavalli in fuga e caduto), 1942 circa. © by SIAE 2021