In uno spettacolo di forte impatto emotivo e grande efficacia scenica, prende vita fino al 15 dicembre la leggenda dell’Ilva Footoball Club, per raccontare attraverso una storia che somiglia a tante altre le morti causate dall’acciaieria di Taranto
Come si racconta l’indicibile? Come si è raccontato, cinquantacinque anni fa, l’inizio dell’opera deliberata di strage di persone comuni da parte di chi era pronto a uccidere indiscriminatamente pur spingere a costruire un mondo secondo il proprio disegno perverso? Tacendo o mentendo. Dando colpe a pacifisti innocenti e nascondendo i veri responsabili dietro una cortina di fumo, di indeterminatezza e di segreti di Stato a protezione di suoi elementi di spicco. Se oggi la strategia della tensione è un ricordo, non lo è quella che allora – come oggi – si può chiamare strage di Stato. Alle finalità eversive si è semplicemente sostituita la logica – più strisciante eppure endemica – del profitto. Questa è l’immagine – disperante quanto concreta – che si trae uscendo, costernati, pieni di rabbia e gratitudine dalla sala del Teatro Elfo Puccini in cui è appena andato in scena Ilva Football Club, che accende un faro sulla strage silenziosa che da decenni – eredità di un boom economico raccontato ancora piattamente come il tempo che ha consegnato l’Italia al benessere, da cui invece qui sono nati i mostri – condanna Taranto e i suoi cittadini a morire, inesorabilmente, fin da bambini, sotto i fumi degli altiforni dell’acciaieria più grande d’Europa.
Li costringe a scegliere tra rinunciare all’idea di un lavoro e di un futuro, e condannarsi a entrare nel novero di vittime che le istituzioni considerano un rischio calcolato, purchè nel conto si aggiunga un solo decesso più del previsto ogni diecimila abitanti. Come si racconta, si diceva, tutto questo? Per esempio, con la rabbia piena di eleganza con cui lo fa Usine Baug incontrando i gemelli Fabio e Luca Maniglio: scegliendo uno sguardo particolare che li raccoglie tutti e tutti li rappresenta, una famiglia che potrebbe essere tante: Peppe e Maria e il loro piccolo Nino, suo zio Sergio che il destino già scritto (in forma di raccomandazione paterna, come si faceva fino a una manciata di decenni fa, d’operaio in operaio) del lavoro all’altoforno l’ha voluto scansare, aprendo un bar che pure alla fabbrica è legato a doppio filo, come del resto lo è la città. E poi Matteo, l’altro fratello di Beppe e Sergio, che invece quella sorte l’ha abbracciata come chi sa di non poterne fuggire.
Ma ogni famiglia sa che ogni bambino, e ogni città, ha bisogno della sua leggenda. Per chi è nato e cresciuto all’ombra dell’Ilva è la Sidercalcio, la squadra degli operai, sorta come loro dalla stessa infanzia nera come le polveri che si depositano sul campo, da muscoli temprati facendo gol per una vita dentro le reti rubate ai pescatori, per arrivare a giocarsi, nei permessi strappati a suon di scioperi ai capireparto, la gloria della coppa Italia con l’Inter, che vale tutto il nord e il mondo che non li vede. Poco importa, a conti fatti, dove finisca la realtà è inizi il mito. Quel che conta è che non mancano, come di prammatica, gli eroi: il roccioso Di Tuglio e soprattutto il golador per antonomasia, l’idolo degli invisibili che diventano eroi, Capanò. Cui non a caso si dedica un coro che fa eco a quello dedicato al bomber di provincia che, dopo aver giocato proprio a Taranto, è stato capace di restituire la gloria della massima serie alla Fiorentina dell’alba dei 2000 sprofondata in serie C. Sulla scena diventa “Dio perdona, Capa no”, un sacro fatto tutto di polvere e lavoro che si prende sulle spalle e si fa interprete delle voci di una città che gli interpreti – ai Maniglio si aggiungono Ermanno Pingitore, Stefano Rocco e Claudia Russo – restituiscono con una partecipazione misurata, che riesce a non far cadere in eccessi enfatici una storia la cui drammaticità basta in se stessa a produrre una meritata standing ovation. Che va – attraverso gli interpreti – alle voci della città di cui la compagnia si fa carico fin da prima del buio in sala.
Scegliendo di rappresentarla – in una drammaturgia complessa e ben architettata – interpolando i piani narrativi e sovrapponendo i linguaggi, dove alla prosa da teatro civile con cui la città maledice i colpevoli delle morti e chi continua. oggi, a girarsi dall’altra parte, si accostano (anche fisicamente, su una scena simbolicamente non di rado diviso in due) immagini di grande impatto che usano invece il teatro fisico. O di una illuminotecnica sapiente, firmata Emanuele Cavalcanti, che disegna la scena e, attraverso gli attori, porta sul palco lame di luce che tagliano il buio che ogni parte politica ha lasciato cadere su Taranto ai corpi degli atleti, nutriti da un immaginario quasi da cartone animato, che in questo caso sono però effettivamente gli stessi corpi sacrificati alla diossina.
E non importa davvero come la cavalcata finisca, sospinta dal turbinare violento che solleva colonne d’aria, Forse è già scritto, come la sorte di fisici che in otto ore di lavoro incamerano le sostanze tossiche di 6500 sigarette per aver fatto “un patto col sogno” e con le condizioni che il profitto, di ogni colore, vuole come “condizione necessaria per svegliare il sud dal suo immobilismo”. Tra diritto al lavoro e alla vita, si può scegliere? Non resta forse solo che sognare come da bambini, un calciatore che potremmo essere noi, che scriva un futuro di riscatto pur senza smettere di somigliare – anzi di essere – un operaio del siderurgico. Anche perchè lui, come tutti, fuori dalla metafora, resta anche oggi prigioniero di una città invendibile, di case che nessuno può lasciare perchè nessun altro acquisterebbe.
Dove, mentre nel resto del mondo si discute di impatto ambientale, la legge, anzichè proteggere i cittadini, si è adeguata all’azienda, distorcendo e modificando i suoi parametri autodefiniti perchè alle vittime delle sostanze tossiche resti soltanto il conforto di quel po’ di umanità che – magari proprio a Firenze – possono metterci i medici, combattendo in prima linea contro condanne già scritte. Una moltitudine di voci singole per comporre una piece affascinante e ben riuscita, un canto in omaggio a quelli che – con i dati di cui poco sopra – le istituzioni chiamano con grottesca eloquenza “luoghi di sacrificio” in nome del profitto. E una maledizione, con la lingua del teatro, verso chi continua a permettere o a fingere di non vedere una strage che, a suon di assoluzioni in tribunale, non accenna a finire.