Laura Marinoni fa rivivere in scena, al Teatro Franco Parenti fino al 21 novembre, la Gilda del Mac Mahon. Ma le parole forse più luminose di Testori sono diventate una preziosa occasione di corpo a corpo con sé stessa, e – soprattutto – per sperimentare qualcosa di nuovo
Foto © Michelangelo Carliez
Si potrebbe dire molto, della travolgente Gilda che Laura Marinoni porta in scena – accompagnata al piano da Alessandro Nidi – al Parenti. Del magnetismo – e insieme della freschezza – di un’attrice che non ha bisogno di dimostrare nulla e forse proprio per questo si prende la libertà (una delle parole chiave del prezioso dialogo che segue) di giocare con questa “Bocca di rosa” con la chioma rossa à la Milva e un abito fiammante che le fascia i fianchi.
L’accostamento sarebbe ed è perfetto, se non fosse trito, perché è proprio questo, la Gilda che dà nome alla raccolta di racconti di Giovanni Testori, la donna che l’amore (più che il sesso) lo fa per passione, soprattutto dell’amato e sfuggente Gino, o per immaginarsi un’eroina da fotoromanzo, mentre tratteggia una Milano che non esiste più, le cui brutture scompaiono dentro un recitar cantando pieno di grazia schietta perduta – forse – anche quella.
Si potrebbe dire molto di questo bel monologo dai colori del melologo, ma conversando con Laura Marinoni si capisce che è meglio, invece, lasciar parlare lei, e la lucidità e la passione (ancora, non a caso) con cui rilegge attraverso la Gilda il percorso di un luogo e di un tempo e il suo. Per scoprire che, anche dopo diversi decenni di fortunata carriera è proprio dentro figure come la Gilda che si scopre qualcosa di nuovo. Anche di sé.
La prima sorpresa di questo spettacolo arriva presto. La Gilda di Laura Marinoni canta. Che esperienza è?
Cantare è una grande sfida. Quando recito mi sento sempre nella mia acqua, mentre cantare spesso mi ha spaventato. La cosa più difficile è passare continuamente dal cantato al parlato. Quando facevo l’Opera da tre soldi – in cui avevamo fatto addirittura esami in conservatorio e con orchestre dal vivo – ho dovuto imparare a farlo, perché Polly parla molto, e canta, e corre. È sicuramente più facile fare un concerto di solo canto. Ma è molto più divertente far nascere le canzoni dalla parola e viceversa.
Ecco allora che questa Gilda prende forma per parole e musica. Come è nato questo lavoro?
Io e Alessandro Nidi collaboriamo da tempo, e lo facciamo anche nella ricerca di cose che possono essere raccontate in questa dimensione di contaminazione. Al punto che spesso sono io a suggerire le musiche e lui a propormi i testi. Abbiamo cominciato con L’amore ai tempi del colera, poi, durante il lockdown mi ha proposto di usare quel tempo per preparare un nuovo lavoro, ed è stato lui a proporre la Gilda.
Ma la relazione con la musica nasce molto prima dalla collaborazione con Nidi…
La mia passione per il teatro nasce dalla musica. Da bambina sognavo di fare la pianista, e ascoltavo tantissima musica classica. Sono stata una dodicenne che si chiudeva in camera ad ascoltare Bach, con grande preoccupazione dei miei genitori!, e da ragazza ho studiato canto lirico. Il teatro poi mi ha permesso di mettere insieme le mie due grandi passioni d’infanzia: il canto e la danza. Ma è stata proprio L’opera da tre soldi a togliere la paura e a lasciarmi la voglia di trovare la mia voce naturale, di sperimentare al di là del recitar cantando, di portare nel canto la naturalezza della voce recitata. Da questa spinta sono nati molti recital, fino ad arrivare a questo tipo di progetto.
Cosa significa per te un lavoro come questo?
Vorrei farne uno l’anno, perché rispecchia profondamente la mia natura. Per anni sono stata catalogata come attrice drammatica, mentre ho sempre avuto una verve brillante che raramente ha potuto esprimersi. Lo aveva capito Ronconi, quando mi ha fatto fare la madre di Lolita. Benché non avessi le caratteristiche della caratterista, mi ha permesso di fare emergere la mia ironia. Albertazzi, generosamente, vedeva in me una Catherine Hepburn, che sapeva spaziare anche nella commedia.
Era difficile, però, proporlo anche ai teatri. Io me la sento da sempre un po’ stretta soltanto la mia voce recitata. Solo adesso però mi sono lasciata alle spalle la paura di cantare e sto studiando per poterne avere un controllo. E poi sto seguendo l’evolversi di una voce che cambia e matura, e sto imparando a maneggiarne gli strumenti. È difficile, per me, ad esempio usare un microfono, ed è fondamentale in questo senso avere una squadra di tecnici molto competenti: il teatro è – sempre – un lavoro di squadra.
Nella tua “cura registica” hai ridotto all’osso l’impianto scenico. C’è la Gilda, il pianoforte, due microfoni e il leggio, nient’altro.
Ho fatto la scelta di trasformarlo in una sorta di concerto perché la parola della Gilda è talmente immaginifica che aggiungerci dei movimenti sarebbe troppo. È molta di più la forza del racconto del modo in cui parla e di quel che fa, accompagnata invece da canzoni che spostano il fuoco da Testori. Così arriva Ferrè, che ti parla di una come la Gilda. Abbiamo deciso di liberarci, di andare a caccia di suggestioni che ci piacessero molto, e così abbiamo trovato, in alcuni punti del testo, agganci per brani che sembravano scritti apposta.
Ecco perché, tra tanta musica, c’è molto di inaspettato. Occhieggiano Milano e il dialetto, ma anche una varietà di canzoni che spaziano da Patty Pravo a Monteverdi?
Si sono un po’ chiamate da sé, volevamo evitare l’equazione tra testo su Milano e Jannacci o Nanni Svampa. Così siamo andati a cercare altrove e abbiamo trovato, ad esempio, un testo di Ferrè, come “Il tuo stile”, che mi era rimasto impresso anche per la sua vena provocatoria ma è anche ricco di una sua poesia alta. E, confrontandosi con la pagina teatrale, ci siamo accorti che i due testi quasi si compenetrano. Questo accostamento, ad esempio, ci ha sorpreso per efficacia, molto prima di scoprire che Ferrè e Testori erano, effettivamente, amici, e che esiste una poesia di Testori musicata proprio dall’autore francese (questa). Sono quelle coincidenze che suonano come intuizioni, e ti rendono felice.
Hai una lunga consuetudine con Testori, che inizia con Passio letitiae e felicitatis per la regia di Malosti e arriva a oggi passando alla più recente regia dei Promessi sposi alla prova di Andrée Ruth Shammah. Perché, adesso, dei tanti, questo Testori?
Questo Testori ha dentro una solarità che lo distanzia molto da altri testi. Vince la vitalità, la capacità della Gilda, e anche del Giovanni, di reinventarsi ogni volta. Perché ci possono essere anche trenta Gini, nella vita di una persona, mentre c’è chi non si innamora neanche di uno. Io mi sono innamorata di questo. È una ventata d’aria, la Gilda, anche se è ambientata in un’epoca che non esiste più, come non esiste più neanche lei. Non la incontreremmo più, la sua semplicità, la concretezza della vita, ed è una tragedia!
Qual è allora il valore di raccontarla ancora?
Durante il lockodown, quando la fisicità era azzerata, in un momento storico in cui tutto passa attraverso il virtuale, ho trovato liberatoria una donna che non distingue il sesso dall’amore, trovo che parli al contemporaneo. Perché oggi ci siamo posti dei paletti: l’amore fisico connota un certo tipo di persona. Invece la fisicità, la capacità di essere liberi, è la più difficile del mondo. E allora la Gilda ha una tenerezza e una vivacità da riscoprire.
Hai detto che Testori ti fa sentire a casa. Che rapporto hai col suo teatro e con la Gilda?
A me la Gilda ricorda da dove vengo. Ho passato un importante parte di infanzia coi nonni, persone semplici e di cuore che parlavano in milanese e mi hanno cresciuta in una casa di ringhiera proprio vicino al Mac Mahon, per cui Testori mi entra sotto la pelle, senza filtri, ed è liberatorio. Testori per me è come fosse uno zio, ne ho una sensazione di familiarità, di prossimità di DNA. L’ho conosciuto, da giovanissima. Nell’83 i Promessi sposi alla prova sono state le mie prime prove. Lo farei tutto, e sogno di interpretare la Maria Brasca. Ma il Testori dei racconti mi affascina ancora di più di quello di personaggi più drammatici. Perché oggi mi voglio divertire.
Del resto, ci sono due possibilità, invecchiando. O ci si intristisce, o si continua a muoversi. Ad esempio, qui ho potuto occuparmi di quella che per cautela ho chiamato cura registica. Ho bisogno, dopo quasi quarant’anni di palchi, di fare cose mie che mi lascino libertà.
Come si sente una milanese, a recitare la Gilda?
Mi sento come si devono sentire i napoletani quando recitano in dialetto. Anche se non parlo in milanese, ho la libertà di recuperare la cadenza, il suono, mentre quasi quarant’anni di teatro mi hanno dato una lingua più neutra che è diventata naturale ma non ha quella pasta e quella espressività.
Uno strumento per smuovere qualcosa di intimo…
Noi abbiamo una memoria profonda che è la nostra verità ultima, libera delle sovrastrutture che la vita ci ha messo; ed è estremamente affascinante riuscire a individuarlo e provare a svelarlo. Basta pensare a Dario Fo: quella lingua, anche se è inventata diventa più vera del vero. Quando ho fatto Passio laetitae et felicitatisho visto che questo è vero anche con una architettura elaborata come quella, piena di latinismi. Testori aveva un pentagramma, e faceva con la scrittura quello che io cerco di replicare con il canto, dire alla voce: liberati. Ho sentito che la Gilda del Mac Mahon era un testo in cui questa musica poteva entrare. Del resto, il Giovanni amava il cabaret e la lirica. Poi erano gli anni in cui gli intellettuali andavano alla Scala una volta a settimana e poi nei bassi, c’era una contaminazione profonda. Ed è quanto di più contemporaneo, perché ormai nessuno è più una cosa sola.
La Gilda è l’archetipo della donna libera, e insieme una ragazza che crede nell’amore devoto. Ma com’è, allora, la donna di Testori?
Quello in scena non è il femminile, è lui. Io sento il Giovanni nella Gilda, non una donna. Sento la sua passione, il suo desiderio, il suo impulso ad essere libero. Ha bisogno di un personaggio femminile per raccontarsi perché il suo essere uomo non basta. Vale anche per Fassbinder, per Tennesee Williams. Chi è Blanche, se non il suo autore? Sono personaggi che possono contenere tutti i generi. Hanno come contraltare una mistica del materno che invece non ha nulla a che fare con l’eros, e che li ha indotti a trasporre tutto l’eros del femminile in letteratura. Anche l’ossessione erotica non è altro che una ricerca disperata d’amore. È come se dicessero: Non posso fare a meno di un amante dietro l’altro, perché non so chi sono se sto da solo. È un meccanismo perfetto sui personaggi femminili, ma è una proiezione dell’autore, e si specchia sempre in un sacro che Testori non riesce a scacciare, come non riesce a scacciare l’eros, che in certi testi ha connotazioni persino oscure. La Gilda, in questo, è più innocente. Non è un personaggio tragico. È una soubrette, si è davvero identificata con la Rita Hayworth, e per lei è fondamentale, perché si sente dentro un film. Per scappare dalla sua vita si è messa una maschera che non distingue più da sè.
Come si colloca, invece, la Gilda, nel percorso della Marinoni attrice?
Tutte le grandi personalità che ho incontrato mi hanno lasciato un’impronta, che però non mi interessa definire. Non voglio avere una cifra troppo simile a se stessa, non ce la faccio a riconoscermi in qualcosa che mi debba per forza definire. Io sono di quelle attrici a cui non interessa essere riconosciuta per nome e cognome, ma sparire nel personaggio. Mi sento della linea di Franca Nuti, di Annamaria Guarnieri, di queste grandi interpreti milanesi che si sono sempre messe al servizio di quel che facevano. Se devo fare la tragedia lo divento, se devo fare la commedia divento commedia. La maschera della persona, prima ancora che quella d’attrice, bisogna togliersela. Bisogna sempre ricominciare da capo.
Ci si sente messi alla prova anche dopo una carriera così lunga e fortunata?
Una volta, dopo cinque giorni di prove ti potevano protestare, e non era una posa. Accadeva. Io, oggi, mi sento ancora così: quando inizio un progetto, penso sempre che qualcuno potrebbe protestarmi. Da uno come Albertazzi, che nella mia vita è stato fondamentale perché mi ha abituato a lanciarmi senza paracadute, e perché sapeva interagire col pubblico con una naturalezza e un fascino straordinari e poi cambiare faccia in pochi secondi, ho imparato a bucare sempre un po’ di più la quarta parete, non per essere ammiccante ma per trovare chiavi di comunicazione nuove. Cantare ad esempio, proprio perché non lo faccio da sempre, mi dà un grande rigore, e insieme la possibilità di alzare l’asticella, di continuare a cercare.
Il paradosso dell’attore: togliere la maschera attraverso chi la maschera la indossa
È più facile per chi lavora con la maschera, toglierla. Perché se, come diceva Rilke, hai una necessità profonda, capisci di doverti mettere a nudo con te stessa. Per riuscire a entrare nel mondo di qualcuno che non sono io, devo prima capire chi sono e contemporaneamente lasciarlo andare per mettermi al servizio di un’altra. Tutti conteniamo ogni sfumatura, siamo santi e assassini. Dipende cosa coltivi, quale dei lupi che ti abitano dentro scegli di nutrire. Il lavoro dell’attore ha questo di straordinario: non finisci mai di osservarti. E allora capisci da dove parti, ma poi devi comprendere ad ogni incrocio perché scegli una direzione e non un’altra. Per poter, eventualmente, tornare indietro. Il pubblico non si immagina quanto il nostro lavoro di interpreti richieda una connessione costante con sé, per avere gli strumenti per riconoscere quello che ci tocca anche a livello subliminale. Nel tempo la sensibilità si acuisce, e ti sorprendono le intuizioni. Ma anche quello è un allenamento all’ascolto.