Fino al 3 marzo al Piccolo Teatro Strehler, Antonio Latella mette una firma decisa su una Locandiera e una straordinaria Sonia Bergamasco trasforma in una paladina delle donne, che insegna una nuova forma di potere
Pensando alla Locandiera, difficile non evocare i tratti di Carla Gravina, nella versione – anche televisiva – consegnata agli annali con la regia di Giancarlo Cobelli, vista qualche anno fa in un corso universitario, incentrato però su Massimo Castri. Lo stesso che ha diretto una luminosa Sonia Bergamasco, trentenne, nella Trilogia della villeggiatura. Accanto a lei, in teatro, anche Antonio Latella. Partendo da qui, non poteva che essere l’attrice milanese a raccogliere il testimone del ritorno di Latella all’amato Goldoni, in cui la memoria di Castri (se non altro nelle intenzioni del regista) è, in assenza, presentissimo. In un Teatro Strehler gremito di ragazzi, più che sullo sviluppo degli avvenimenti – ormai, c’è da augurarsi, patrimonio comune condiviso anche dei più giovani – vale la pena soffermarsi su quanto, ancora, Mirandolina (colei che non può che essere osservata, e amata), possa ancora parlare, divertire e (a ben guardare) accompagnare all’indignazione, pur liberata della volontà didattica esplicita nel testo goldoniano. Latella lo rende evidente attualizzando (talvolta in modo estremo) gli abiti, e d’altro canto conservando esatto il dettato del testo originale, che prova tutta la sua freschezza perché affidato ad interpreti impeccabili, guidati da una Sonia Bergamasco che esce forse vincitrice dal confronto, destinata ad altrettanta memorabilità, e capace di far brillare il testo in sincerità ed empatia. All’ironia di cui è denso il testo nella sua lettura tradizionale, Latella sembra preferire la consapevolezza, che si muove su un’atmosfera via via più cupa e tesa, in cui il sentire della Locandiera finisce con l’esplicitarsi scenicamente, in neon che pulsano al ritmo dei suoi palpiti.
Il gioco di seduzione (che lo sguardo maschile trasforma in ingannatorio) si svela oggi nella sua potenza come esercizio di libertà, dell’autodeterminazione di donne spinte dalla voglia di dimostrare la propria capacità di esercitare il potere di piegare la realtà, con acume e studiatissima eleganza. Persino cedere, quando ormai tutto sembra perduto, al matrimonio che un padre ha scelto per lei, non è forse, per Mirandolina, che l’ultimo (o forse no?) atto di scelta nei confronti di un maschile di cui fino ad allora è rimasta ad osservare (e ad irridere) un combattimento tra galli di chi non conosce altro linguaggio. Se non si vuole (e ce ne sarebbe ben donde) scomodare un protofemminismo, in ogni caso, in questa messa in scena, la spaccatura di genere si fa vistosa. Da un lato la donna basta a se stessa: ci sono le due commedianti sardoniche e liberissime di Marta Pizzigallo e Marta Cortellazzo Wiel, che non hanno bisogno d’uomini né per viaggiare né per amare, (nè amarsi) accanto, naturalmente, a una Mirandolina agisce, comanda e nega, lavora e guadagna, costruisce nel suo interesse e dà forma alla realtà. Gli uomini, al contrario, sono prigionieri, del loro stesso sguardo maschilista, da cui il mondo è stato plasmato come lo conosciamo. Lo è il Conte d’Albafiorita (Francesco Manetti) da cui abbiamo tratto un mondo in cui tutto è comprabile, e il capitalismo guarda tutti col disprezzo di una nobiltà comprata a cui non serve più di una tuta da ginnastica per dar valore a se stesso. A fargli una guerra patetica come una partita di shangai la visione d’antichissimo regime di una pretesa di potere retta dal lignaggio e dai titoli, diventati ormai polvere agli occhi di tutti meno che a quelli del Marchese di Forlipopoli, un Giovanni Franzoni magistrale nella sua tragicommedia. Lo è, vien da sé, il Cavaliere di Ripafratta, Ludovico Fededegni luciferino, che nel suo distacco dalle seduzioni del femminile nasconde – molto brevemente – una misoginia nutrita dalla cultura del possesso, quella che oggi come allora esplode con maggior violenza. La stessa, tuttavia, che alimenta anche Fabrizio, il cameriere e marito designato, che alla sua emancipazione di classe, da servo a membro della borghesia nascente, non fa corrispondere quella personale e valoriale – rimanendo uno di quei molti schiavi della gelosia detestabili – nell’accurata interpretazione di Valentino Villa, perché confondono l’amore col possesso.
Anche quando la vestono con disagio, tutti hanno, in fin dei conti, la loro parte in commedia, e il gioco del teatro riveste di una leggerezza solo apparente un affresco di un tempo (l’oggi) in cui si ride e ancora si applaude nei punti sbagliati, senza riconoscere per tale una violenza. Si gode, però, un esercizio dialettico e scenico di grande finezza, da cui lo spettatore rimane a tratti programmaticamente escluso. Le spalle alla platea sono quelle di chi, anche dall’interno, si sta ponendo a osservare una realtà che abbiamo, tutti, davanti agli occhi, nella rigidità di ruoli che fanno il maschile tanto più meschino e grottesco, come certo teatro, quanto più non si rende conto di stare recitando. Solo chi lo ha dovuto imparare, per scelta o per costrizione, ha appreso anche come utilizzare la finzione a proprio vantaggio.
In una messa in scena astutamente in bilico tra archi classici e bassi elettronici, in cui il servo di Gabriele Pistilli imbraccia una chitarra elettrica tra gli intarsi del fondale e sedie intrecciate dal sapore casalingo, Mirandolina è una donna che – avrebbe detto Michela Murgia, “vuole piacersi, non compiacervi”, e – prima di tutte le Morgane salvo quella arturiana ha reagito agli anatemi di ogni forma del potere maschile e al suo minaccioso “maledico le tue lacrime, le tue lusinghe, le tue seduzioni”, ha potuto dire, con un lampo d’intelligenza negli occhi, la voce modulata e la franchezza di una risata “Sono io, l’uomo ricco”.
Foto di copertina Gianluca Pantaleo
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