No, non delude riprendere in mano ‘La luna e i falò’, romanzo del ritorno e libro finale per il suo autore Cesare Pavese che consegna al mito la civiltà contadina e chiude la sua parabola letteraria, misurando ciò che si perde e ciò che si acquista nel cammino difficile e solitario della maturità
«I simboli che ciascuno di noi porta in sé, e ritrova improvvisamente nel mondo e li riconosce e il suo cuore ha un sussulto, sono i suoi autentici ricordi. Sono anche vere e proprie scoperte. Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo». (Paesi tuoi, 1946).
Per molti anni ho esitato all’idea di riprendere in mano Cesare Pavese, autore centrale della mia adolescenza. Temevo di trovarlo invecchiato, rimpicciolito, di restarne deluso. Ciò che in parte è accaduto, non troppo tempo fa, rileggendo La bella estate. Ma La luna e i falò, no, non mi delude. E come accade per le cose viste la seconda volta, la scoperta della sua grandezza e il ricordo della struggente presa che esercitava su me ragazzo si fondono.
Facile dirlo dopo, dirlo adesso. Facile tirare le somme con il senno di poi, ma La luna e i falò è un libro finale. Un ultimo capitolo. The end, la sala chiude, scorrono i titoli di coda. Lo certifica il diario dell’autore: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più». Lo suggellano gli ultimi versi: «Scenderemo nel gorgo muti». Lo autentica l’uscita di scena con i barbiturici, in una stanza dell’Albergo Roma di Torino, il 26 agosto 1950. Oggi però si può dirlo: è grande e solitario e finale nonostante questo, al di là di questo.
Perché c’è qualcosa che oltrepassa la tragedia dell’uomo, nel fare di La luna e i falò un’opera definitiva. Ed è il suo programmatico tirare le somme di una parabola artistica e intellettuale, consegnando nel contempo al mito la civiltà contadina che non c’è più e il mondo dell’infanzia.
Difficile e disilluso come ogni nostos (non ritrovi i luoghi e i visi come li ricordavi, chi ti poteva riconoscere e risarcire la tua identità vedendo come sei cambiato non c’è più: e la fantasia di andarsene e di ritornare “come nuovo”, qui frustrata, percorre i diari di Pavese e le sue poesie, fin dall’iniziale I mari del Sud) è il ritorno del trovatello Anguilla nel paesino delle Langhe e nelle terre dove è cresciuto. Alla Gaminella dov’è approdato dal brefotrofio di Alessandria quand’era bambino, allevato dalla Virgilia e da Padrino in cambio di un sussidio mensile. Alla Mora dov’è stato garzone da ragazzo, nella grande tenuta governata dal sor Matteo, ammirando da lontano le sue bellissime e sventate figlie.
Anguilla è stato in America, ci ha fatto fortuna e ci ha scoperto la nostalgia. Per il paese dell’infanzia che non era suo («Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere”. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi»), per un’infanzia di cui vuole riappropriarsi nel più toccante e inappagato dei miti pavesiani («Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti»).
Ritrova una frequentazione della gioventù, Nuto (è esistito nella realtà, si chiamava Pinolo Scaglione ed era amico di Pavese). Suonava il clarinetto, ora fa il falegname, è comunista ed è un po’ il Virgilio di questo Anguilla-Dante smarrito nel mezzo del cammino della vita. Difende il mondo contadino (la luna e i lavori che incoraggia e protegge; i falò accesi ai bordi delle vigne per dare nuovo vigore all’uva), racconta la Resistenza ad Anguilla che era altrove (l’uomo che non c’era, l’uomo che guardava: Anguilla come Pavese, che del non aver partecipato alla lotta di liberazione si crucciava e che viveva l’arreso e rancoroso dopoguerra di preti e corvi con astio e insofferenza, come traspare nelle pagine del romanzo, e con un senso crescente di estraneità).
Non ritrova nient’altro. Alla Mora sor Matteo è morto, le ragazze hanno fatto una brutta fine. L’ultima e la più bella, Santina, è stata fucilata dai partigiani come spia nazista, il corpo arso in un falò. Alla Gaminella dove ora c’è l’incattivito mezzadro Valino, divamperà ancora il fuoco: per divorare la casa dopo che l’uomo ha ucciso le due donne che vivevano con lui, ha cercato di ammazzare il figlio storpio (il ragazzo Cinto, che verrà adottato da Anguilla e affidato a Nuto) e si è impiccato.
La feroce miseria delle campagne (e vengono in mente il Fenoglio di Un giorno di fuoco, certe pagine di Gramsci sulla sanguinosa autodistruttività delle jacqueries contadine), la scomparsa dei possidenti, il cambio di stagione, consegnano quell’universo langarolo al mito. A Pavese, che il mito aveva teorizzato e inseguito, l’incontro riesce soltanto sotto il segno della sconfitta: perché c’è mito quando il rito è stato svuotato di ogni vitalità, quando la luna si è nascosta fra le nuvole e i falò non propiziano più la fertilità.
La fine del rito. E insieme il bilancio di una vocazione letteraria che, circolarmente, si chiude come era iniziata. Pavese aveva esordito, negli anni ’30, con le poesie narrative che confluiranno in Lavorare stanca. Conclude, nel 1950, con un romanzo che ha lo stile e le movenze del poema in prosa. Al punto che certe frasi, a scandirle a voce alta mentre si legge, ricordano i perentori avvii giambici o anapestici dei suoi versi: «Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori», «Noi dal casotto li vedevamo passare e poi fino a notte…». Un romanzo che ha dentro un’America, mai vista dall’autore, di stilizzata intensità (e valeva la pena di attraversare il mito americano per distillarne, in poche pagine, un’essenza di terra desolata), il lievito poetico della prosa d’arte (Jahier e Slataper, più che i rondisti), il “dovere del realismo” metabolizzato e piegato alle necessità della sua poetica (le asperità familiari che ricordano il Dickens della maturità, lo sfaldamento delle grandi famiglie come in Verga e De Roberto).
Ma il cuore dolente di La luna e i falò ospita la solitudine. Estraneo ai luoghi dov’è nato, senza famiglia né legami, Anguilla può essere felice solo retrospettivamente: “scoprendo” e “ricordando” la sua infanzia, rispecchiandosi nell’infelicissimo Cinto. Con un secondo sguardo che riempie di felice vitalità un’infanzia pezzente e selvatica. Da una partenza incerta a un incerto approdo, il tragitto di Anguilla-Pavese è sotto il segno della non appartenza, del desiderio frustrato di “essere di un posto”. Accettare stoicamente la distruzione di quel passato, separare scoperta e ricordo, ascoltare la narrazione di sangue e cenere fatta da Nuto, è per Anguilla misurare quel che si è perso e quel che si è acquistato in quel tragitto. «L’ultimo regalo che Pavese fa al suo personaggio-doppio, non potendolo fare a se stesso.