Torna al Teatro Franco Parenti, nel pieno del cinquantenario, La Maria Brasca, in cui una stupenda Marina Rocco raccoglie un testimone prestigioso e la popolana lombarda si scopre ancora emblema di inaspettate libertà
Se è vero – e può esserlo – che la freschezza della gioventù non conosce anagrafe, si potrebbe, forse dovrebbe, dire lo stesso della saggezza dei corpi dei ragazzi. Sta a dimostrarlo, sul palcoscenico di via Pier Lombardo fino al 5 marzo, La Maria Brasca, raro e improvviso quanto sfavillante lampo di luce della produzione di Giovanni Testori.
Delle sue donne, “così profondamente amate e raccontate come nessun altro”, quella che torna in scena come punta di diamante del cinquantesimo del Teatro Franco Parenti è l’unica che reclama una vittoria. Sul mondo che ha intorno, la periferia operaia della Milano degli anni Sessanta, in cui la calzettaia Maria rivendica il diritto e gli strumenti per disporre di se stessa. Sulle convenzioni, che la vorrebbero intrappolata nella vergogna delle malelingue e del giudizio che nasce in casa: dal cognato, Angelo, il maschilista d’ogni tempo, che tutto si prende ma tutto nega.
E dalla sorella, Enrica, popolana nella forma ma borghese nella sostanza, arresa pur nella lucidissima scelta di accettare l’umiliazione del tradimento per non esserne annientata. Ma Maria pretende di vincere soprattutto quel che desidera, e quel che desidera è il Romeo Camisasca. Giovanissimo, molto più di lei, sfrontato, goffo, maudit e perfetto come è sempre l’amore quando esplode. Non (solo) nei sentimenti.
L’amore che Maria dà è, soprattutto quello del desiderio, della carne. Il Camisasca, il corpo della Maria Brasca lo vuole e se lo prende, lo usa, ma sempre dando l’impressione che – anche quando lui stesso crede di condurre il gioco – gli sia in realtà concesso. Anche se suona sul motivo allegro che vuole ventiquattromila baci, sul rombo cupo di un treno che passa e potrebbe segnare una fine, la Maria Brasca ride, grida, si dispera, ma in tutte le sfumature esplora le note sempre alte di un vitalissimo canto di due vecchi amanti, che lo sanno bene “bisogna pur che il corpo esulti”, e in questa dirompenza custodiscono la loro saggezza e la vittoria su ogni idea di sconfitta.
La popolana che lavora a Niguarda diventa così il simbolo perfetto di qualcosa di più di un tipo storico e di genere. È la donna libera, la sensualità schietta di chi dispone di sé nel suo pieno controllo. Anche quando la forza del suo desiderio vira nell’orgoglio di una donna che non sarà tradita fino a che non è lei stessa a deciderlo, nella stessa misura in cui ha deciso di darsi. E – forse può sorprendere un occhio poco avvezzo -quando la forza del personaggio si riveli proprio dove rischia di mostrare la corda del tempo. Non si fatica certo a riconoscere nella Maria Brasca un emblema pienamente contemporaneo dell’emancipazione, della libertà di scegliersi chi vuole e come vuole, sbattendo in faccia al mondo perbenista tutte le sue ipocrisie.
Si potrebbe essere spiazzati dalla scelta della Maria di accettare un uomo che si trasforma nel più tipico dei tipi maschili, che smette di cercarla forse soltanto per noia. Potrebbe sembrare una donna irrimediabilmente figlia del suo tempo, la Maria devota che non vuol vedere, che compete con un’altra dona per chi non la vuole più, che mette sì in piazza quel che non si racconta, ma per tenere a sé un uomo che solo lei si rifiuta di credere perduto, che sceglie di “chiamarsi come il suo assassino”. (si sente l’eco di un’immagine che De Andrè avrebbe usato negli anni Ottanta, della rosa gialla trovata a “camminare fianco a fianco al suo assassino, i giornali in una mano e nell’altra il suo destino”).
Ma la Maria Brasca sa essere ancora più dirompente proprio in questo. Il suo non è desiderio di concedersi alle regole del tempo. È un sussulto, violento come il desiderio, di fedeltà a se stessa. “Lo stesso cuore che ho messo per legarti, lo metto per non perderti”. Qui sta il luminoso (solo apparente) controsenso. Nello scoprirsi appassionata ai confini del fanatismo, non sta cedendo a un uomo, sta dando alla realtà i propri personali contorni, che sono diversi per ciascuna, e sempre ugualmente validi.
Nel momento in cui lo ha scritto, nemmeno il suo autore avrebbe forse potuto immaginare quanto sappia parlare ancora a questo presente una figura che evolve, anziché implodere, dentro il desiderio di un altro. E quanto più è forte, oggi, squarciare il velo che Testori aveva voluto far calare su Maria, e trovare dietro la sensuale e lucidissima ragazza che rivendica la propria indipendenza e la propria urgenza l’ombra del giovane uomo che nascondeva. Il giovane Giovanni, forse, che l’autore Testori a quell’altezza non poteva raccontare.
Si potrebbe, se si vuole, tutte le volte che fin qui si è usata la parola donna con “il femminile”, volendo ricadere nella distinzione di genere, che è parte di uomini e donne. O semplicemente con “persona”, che cerca un proprio diritto ad esistere, ad amare, a desiderare, senza nessuna vergogna, “il solo modo che ho avuto e che ho per volergli bene”. Ma in scena, in ossequio al testo, la Maria Brasca resta una donna, una Marina Rocco straordinaria, che domina la scena. Dentro l’abito della leggerezza che le viene da sempre drappeggiato addosso, sa far emergere tutta la forza, intimamente tragica di un personaggio pieno di sfaccettature, che strappa applausi a scena aperta più volte e che sa far ridere di gusto proprio perché rende evidente tutta la sua drammaticità piena di poesia e di verità, di assenza di filtri brandita come un’arma di rivendicazione perché “se Maria Brasca dice una cosa è perché ha già in mano le carte per arrivarci”.
A sostenerla una Mariella Valentini precisissima, la pragmatica Enrica che di Maria è il doppio rovesciato; Filippo Lai, torna sul palco dove di Testori è stato il Renzo dei Promessi sposi alla prova e si destreggia con ottimo mestiere, dimostrando di saper utilizzare a proprio vantaggio gli strumenti della sua giovane età per dar corpo a un Camisasca credibilissimo. Luca Sandri, l’untuoso e repellente Angelo Scotti è, a sua volta, un archetipo, mentre il suo interprete è – racconta la compagnia – la memoria storica della Milano che questo spettacolo fa rivivere. Una città che non ha più forse nulla delle periferie operaie che qui lo scenografo Fercioni restituisce con una feritoia di interno intimo come solo la cucina di casa aperta sul cemento. Periferie che Testori “cantava” nella sua lingua caratteristica o – come qui – concretissima e carnale.
Resta, però, capace di farsi ancora riconoscere, la potenza della vita che travalica il tempo. Come fa Andrèe Ruth Shammah, scegliendo per la nuova messa in scena la via di una precisione filologica. Sono le stesse le musiche, di carpi e fortini, e persino i costumi. Una cura della continuità ai limiti del maniacale, se si pensa che la sarta di questo allestimento, Simona Dondoni, è la nipote di quella che aveva curato la prima Brasca di Shammah, impersonata da Adriana Asti, trent’anni fa. Niente di più coerente, dunque, scardinato il fattore tempo, che sentire aprirsi il sipario proprio sulla voce della Asti, e poi avvertire l’eco delle voci di Testori, e dello stesso Franco Parenti.
La commozione con cui Shammah saluta la chiusura del sipario sulla prima della sua nuova Brasca non è, allora, solo l’esito dell’omaggio ai maestri e ai compagni di strada per segnare una ricorrenza, ma la sintesi di un cammino che si è compiuto per ricominciare. Di un passato che serve a guardare avanti. Con l’appoggio silenzioso ma pratico di un’amica che diventa inconscio collettivo. Come la Giuseppa che Shammah si prende la (vincente) licenza, mai senza approvazione testoriana, di togliere dal testo, anche in questo nuovo allestimento, per portarla in platea.
La confidente e la spalla diventa il pubblico, e per la notte della prima ha il volto e le mani di Ornella Vanoni, che duettando suo malgrado con la Maria regala al pubblico che riempie la sala di via Pier Lombardo uno spettacolo nello spettacolo di verità e ironia che vale una menzione a parte, replicando quello che a suo tempo la Asti aveva fatto con Franca Valeri, seduta in prima fila. Era stata l’indimenticabile Franca, nel 1960, la primissima Brasca, la donna su cui il personaggio è stato scritto. E come la Giuseppa, nascosta una lacrima di commozione dietro l’ultima risata, stretta l’ultima volta la mano della Maria Brasca che canta vittoria in tutta la sua saggia gioventù, il pubblico sa di avere assistito, più ancora che a un passaggio di testimone, alla circolarità delle vite e delle storie.