Potete non alzarvi dal divano o infilarli nello zaino. Leggerli per identificarvi o per capire. Perché la montagna la si ama o la si odia: ma non le si è indifferenti
Nel suggerire quali libri metterei in valigia per un periodo di vacanze montane vorrei partire dal presupposto che la montagna voi la detestiate cordialmente, altrimenti non avreste bisogno di alcun consiglio. Diciamo che mi immagino un atteggiamento da prigioniero/a simile a quello manifestato dalla madre di Natalia Ginzburg in alcune righe memorabili di Lessico familiare, in cui si inveisce contro “quel malignazzo di un Saint Jacques d’Ayas”, covo di noia mortale e somme scomodità. (Inutile dirvi che in quel malignazzo di Saint Jacques d’Ayas, località montana che adoro, ho passato tra i momenti più felici della mia vita).
Eviterei dunque la letteratura di montagna, che gli stessi appassionati spesso tendono a snobbare: farò solo tre eccezioni.
La prima eccezione è Le mie montagne di Walter Bonatti, uno dei capisaldi della mia giovinezza – fiumi di lacrime e ansia riversati sulle pagine della tragedia del Pilone Centrale, sul Monte Bianco (1961) una delle disgrazie di montagna più note, raccontate e strazianti nella storia dell’alpinismo. Forse alcune parti risulteranno meno appassionanti (le beghe tra alpinisti a volte ricordano quelle condominiali), ma Bonatti è stato certamente uno dei pochi grandi narratori non monomaniaci, e quindi capace di trasmettere grandi emozioni anche ai profani.
La seconda eccezione che farei, con qualche riserva, è Aria sottile di Jon Krakauer, cronaca super-appassionante di una tragica serie di incidenti avvenuta sull’Everest, che come è ormai noto è diventato un affollatissimo terreno di giochi per ricchi, con la proliferazione di spedizioni commerciali (tu paghi, io in qualche modo ti faccio arrivare in cima alla montagna più alta del mondo). Krakauer è un narratore che ti tiene con il fiato sospeso, come se fossi a cento metri dalla vetta e avessi finito l’ossigeno, e ha avvinto migliaia di lettori che non erano mai stati neppure su una collina, però c’è un grosso “ma”: la sua ricostruzione è stata accusata di non essere affatto obiettiva, pur essendo stato presente ai fatti, e in particolare di aver infangato la reputazione dell’alpinista russo Anatolii Boukreev, poi purtroppo morto nel 1997. Krakauer descrisse Boukreev come responsabile della morte di alcuni clienti, ma questa versione fu poi molto contestata e qualche anno dopo l’alpinista russo scrisse un suo libro in risposta. Il problema è che Krakauer è uno scrittore assai abile e godibile, Boukreev no, quindi il suo racconto risultò assai meno appassionante per i non addetti ai lavori: nella vox populi Boukreev resta un infamone, quando in realtà salvò più di una persona. Quindi leggetevi Aria sottile, ma fatelo come se fosse un romanzo, un testo bello ma infingardo.
La terza e ultima eccezione riguarda una storia vera, drammatica e incredibilmente a lieto fine. Anche qui a raccontarla e a renderla molto godibile è un’ottima penna, quella dell’alpinista britannico Joe Simpson. La vicenda è davvero pazzesca: Simpson e il compagno di cordata Simon Yates stanno scendendo da una cima nelle Ande, tra enormi difficoltà e nella bufera, quando Simpson, già ferito in modo serio, scivola malamente e resta appeso alla parete di ghiaccio, inerte. Yates, che è sopra di lui e lo sta assicurando, non riesce a vederlo, non se sente le urla sente solo questo peso attaccato alla corda e si convince che per il compagno non ci sia più niente da fare, che sia ormai morto per il freddo e le ferite. Nel tentativo di salvarsi e di non essere a sua volta trascinato di sotto, prende l’unica decisione razionale, per quanto terribile: con il coltello recide la corda che lo lega a Simpson, e riprende la pericolosissima discesa. Il corpo di Simpson viene inghiottito da una voragine del ghiacciaio, ma miracolosamente l’alpinista non è morto. Non solo, la voragine si rivela non un abisso senza fondo come spesso accade, ma un imbuto che lo deposita con relativa dolcezza sul pendio sottostante. Simpson dopo un po’ riprende i sensi e pur mezzo fracassato riesce a trascinarsi a valle fino al campo base, dove i compagni già lo piangono morto. Sarete lieti di sapere che nonostante tutto Simpson e Yates sono rimasti abbastanza amici e che Simpson ha contribuito a scagionare il compagno dalle accuse che gli piovvero addosso. Per rendersi conto dell’ambiente selvaggio e ostile in cui tutto ciò è avvenuto nell’ormai lontano 1985 suggerisco di vedere anche La morte sospesa il bel film-documentario tratto dal libro, di cui porta il titolo.
A questo punto, dopo questa immersione in disgrazie o mancate disgrazie, vi starete non a torto chiedendo quale patologia mentale induca la gente ad andare in montagna. Rispondo suggerendo di leggere o rileggere quelle che a mio parere sono tra le più belle e commoventi pagine scritte sulla montagna, quelle con cui Primo Levi nel racconto Ferro (Il sistema periodico) racconta delle sue avventure con l’amico e compagno Sandro Delmastro, poi caduto nel 1944 nella lotta partigiana.
Primo Levi, alpinista dilettante al pari di molti degli amici che divennero antifascisti con lui, ci fornisce una prima idea. Ma c’è un libro di Robert MacFarlane che proprio affronta la questione nello specifico, affrontando in modo leggero ma “informato dei fatti” gli aspetti filosofici, artistici, e letterari dell’andare in montagna. Si intitola Come le montagne conquistarono gli uomini, e il sottotitolo è indicativo: Storia di una passione. Non ci troverete racconti di salite epiche, ma la storia dell’evoluzione del rapporto culturale tra le montagne e gli uomini. Io per esempio ho scoperto che i poeti romantici inglesi non erano quei piagnucoloni che credevo: Wordsworth e Coleridge erano due scalatori bravi e avventurosi. In poche parole è una lettura gradevole anche per chi si alza a fatica dal divano.
E per il resto ci si può scatenare con romanzi che non parlano di alpinismo ma sono ambientati in montagna – c’è solo l’imbarazzo della scelta. Mi limito a citare un’opera vecchiotta (è del 1952): La neve a lutto – o Neve in lutto a seconda delle tante edizioni – di Henry Troyat, uno dei più popolari e prolifici scrittori francesi del Novecento (lui però era nato in Russia, in una famiglia di armeni assai facoltosi). Si tratta di un bel tragedione familiare ispirato dalla caduta (reale) di un aereo sulle pendici del Monte Bianco, e nel 1956 è diventato un film (La montagna) con Spencer Tracy nella parte della guida alpina buona, e Robert Wagner in quella della guida alpina avida e antipatica.
Immagine di copertina: Walter Bonatti e Eric Abram – K2, 1954