Testori rivive grazie a Malosti e Fracassi: al Parenti “ritorna” simbolicamente uno dei testi del maestro brianzolo, nell’ambito del progetto a lui dedicato
Dopo la tremenda invocazione finale per-contro il Cristo, pregandolo o di liberarci dalla carne o di venire giù con noi a vedere come si soffre, Giovanni Testori non poteva che operare una scelta decisa, così come il cinema non poteva non diventare sonoro dopo la Giovanna di Dreyer: e infatti ascende fra le Mater Strangosciàs e regala alcune opere di purezza indimenticabile non smettendo mai di soffrire a nome di tutti, dalla Ghisolfa alla brina della Brianza. Inizia così dopo La monaca di Monza, andata in scena con regìa di Visconti nel 1967 (sette anni dopo lo scandalo dell’Arialda e di Rocco e i suoi fratelli, con Lilla Brignone protagonista, la “conversione” dello scrittore e drammaturgo che ha segnato per sempre il secolo scorso ed è ancora in anticipo sui tempi avendo creato un linguaggio autonomo, meraviglioso, rigurgitante di emozioni proprio nell’accostamento non simbolico delle parole (solo san Fellini aveva un naturale eloquio paragonabile). Verranno così inizio anni 70 la Trilogia degli Scarrozzanti con Ambleto e Macbetto, poi i tre Lai.
Quindi il progetto Testori in corso fino ad aprile al teatro Parenti – ma sarebbe più giusto dire Salone Pier Lombardo perché Testori ne fu un fondatore – torna in pratica a casa, anche per la scelta di una straordinaria Federica Fracassi, già Erodiàs e Cleopatràs, imparentata geograficamente con zolle brianzole testoriane e capace di esprimerle dal vivo con una potenza e una sofferenza interiore di rara efficacia e senza alcuna connotazione di maniera retorica.
Ogni parola che esce dalla sua bocca è come se rivivesse e ci trasmettesse vivo e intonso il momento in cui Testori l’ha scritta: Federica amplifica il senso e significato, lingua e linguaggio, portando fino a noi intatta la disperazione che contiene. E che non è, come pensano i faciloni, troppo cattolica barocca e di superato tormento, ma viva e attualissima nel senso di eterna. La Monaca che il regista Valter Malosti ha riassunto in un monologo a tre voci di 90’ (in scena fino al 3 marzo) tre attori in fila sul palco, come tre immobili fotogrammi di un film, ciascuno in una scatola-mondo protetta dal plexigas che offuscato dalla polvere del tempo, li toglie dal confronto diretto ma li fa riposare in una sorta di eternità letteraria mai liberi però dalla dannazione che ci raccontano come in un film horror, come tre “revenant”.
Questa Monaca che offre una elettricità linguistica meravigliosa e contiene la potenza di echi che risuonano forti dentro, al contrario di Edipus, che finiva nell’atto della nascita, comincia dalla morte e si avvale della conoscenza degli atti del processo a lei intentato. Lei, la Monaca peccatrice ed assassina, colpevolissima e mai pentita, Marianna de Leyva, donna dello sfarzoso Seicento obbligata dal padre ad entrare in convento contro la sua volontà, condannata dal Vicario Criminale a carcerazione perpetua, esprime con lingua di oggi (alcune osservazioni sono profetiche, vedi i fiori dal profumo virtuale…) la sua personale tragedia di religiosa senza volere.
Appare all’inizio già zombie murata in nero abito di morte nel monastero di s. Valeria a Milano dove è praticamente murata viva a dannarsi biblicamente, nell’ombra sembra The nun, ci guarda dal nero incavato degli occhi, riflesso malsano dello spirito. Inizia nelle scatole mortuarie affiancate, quasi bare, il calvario sessuale a tre, col nero eroe fustissimo influencer di monache in un delirio di sensi, e la giovane monachina che vede, tradisce, subisce, ricatta, gode, infine muore assassinata dagli amanti come in un giallo in bianco e nero.
Non c’è azione in questa versione, diversa quindi dal classicismo dello spettacolo di Visconti e dalla rude potenza di quello di De Capitani con la Morlacchi, ma c’è un gran riverbero di pulsioni, c’è un confronto post mortem dei protagonisti, che poi sono soprattutto i due amanti, c’è una voglia di uscire dal proprio destino che rende tutto strepitosamente teatrale: sono i Prigioni di Michelangelo che tentano di liberarsi dalla schiavitù della materia cui sono appesi.
La Monaca studiata svogliatamente a scuola nei Promessi sposi (ne apparirà poi un’altra, diversa, con Laura Marinoni impegnata nel testo del Testori manzoniano) non si riflette in questa anche se sui banchi girava qualche gossip sconveniente su malefatte inenarrabili. Ma la grandezza del testo e dello spettacolo (Vincenzo Giordano bravissimo artefice di Male, Giulia Mazzarino pronta a sofferenze migliori), è nell’essere insieme corpo e spirito, luce e ombra, sperma e sangue, indelebile e perfetto riflesso di intenti d’autore da cui per fortuna non saremo mai abbastanza protetti, sempre ferite aperte.